Apparentemente, né la Repubblica Islamica dell’Iran né il supremo leader Ali Khamenei risultano fedeli lettori di Isola Illyon: o, se pure lo sono e stanno leggendo queste righe (uhm, salve?), dobbiamo consigliare loro di rileggersi attentamente il nostro articolo di qualche settimana fa in cui spiegavamo esattamente perché “Pokémon GO” sia un prodotto decisamente positivo e da incentivare, e non certo da mettere al bando.
Numerose fonti (scegliendone una vicina a noi per autorevolezza, la BBC) riportano infatti di un bando annunciato ai primi di agosto ed entrato in vigore in breve tempo nello stato persiano contro l’app della Niantic. Purtroppo, non si tratta né del primo blocco imposto a Pokémon GO, né tra i principali divieti iraniani sull’utilizzo del web (all’interno del paese non è teoricamente concesso accedere a siti come Facebook e YouTube). Tuttavia, la notizia pone un serio precedente che potrebbe portare a ulteriori misure repressive sull’utilizzo del gioco a livello globale.
Quali sono dunque le motivazioni che hanno portato l’Alto Concilio per gli Spazi Virtuali a muoversi tanto severamente contro i mostriciattoli tascabili? Paurosamente mondane, si direbbe. In un primo comunicato si accennava unicamente a delle non specificate ragioni di “sicurezza”, che sono successivamente state attribuite alla necessità, per gli utenti, di essere continuamente monitorati tramite GPS durante l’utilizzo. Per l’Intelligence iraniana ciò rappresenta presumibilmente una minaccia alla sicurezza interna, poiché permetterebbe a un osservatore esterno (Google? Niantic? Nintendo?) e non necessariamente amichevole di tracciare in tempo reale spostamenti e assembramenti di popolazione (truppe?).
Prima che tutti inizino a scuotere la testa commentando sulla paranoia persiana, ricordiamoci che non solo la Cina aveva espresso timori similari sulla geolocalizzazione, ma anche che Israele ha bandito il gioco alle proprie forze armate temendo che GPS e fotocamera (per la realtà aumentata) potessero esporre segreti vitali per la sopravvivenza dello Stato.
In Iran la situazione è peggiorata ulteriormente dal fatto che, per essere distribuito sul suolo persiano, un prodotto deve prima ottenere l’autorizzazione dal Ministero della Cultura e della Guida dell’Islam, al quale sembra che la Niantic abbia omesso di rivolgersi prima di rendere disponibile l’app negli store di Google e Apple. La faccenda anche qui non è esattamente chiarissima, ma sembra ragionevolmente sicuro escludere motivazioni prettamente religiose: centra poco la fatwa (risposta o decreto di un dottore di diritto islamico) emessa in Arabia Saudita contro i Pokémon anni or sono. La stessa accusava i nostri amici virtuali di mostrare immagini proibite e simboli occulti inneggianti Israele, la Cristianità, i Massoni, lo Shintoismo, e per quanto ne sappiamo anche i Sith, l’Impero Klingon, e la Legione Infuocata.
D’altro canto, tra Pokémon e religioni organizzate c’è sempre stato un rapporto leggermente conflittuale (almeno, con le frange più estremiste e meno coerenti di suddette religioni organizzate): se le massime autorità sunnite egiziane gettano dei paralleli tra Pokémon GO, alcol e attività sessuali (uhm, a me suonano più come complimenti), nel siracusano si prepara un’azione legale da parte del vescovo di Noto contro “un sistema totalitaristico pari a quello nazista” per “preservare” la “sicurezza sociale di uomini e donne”, mentre la radio vaticana si lanciava in tempi non sospetti in critiche contro l’alienazione e la gratificazione istantanea che questi giochi producono (sospettiamo non abbiano ancora provato a far evolvere un Magikarp se usano il termine “istantaneo”).
Per quanto casi simili possano risultare folkloristici, tuttavia, non va scordata da un parte l’importanza riconosciuta, in primis dalla Chiesa, al franchise Pokémon in generale nel promuovere valori quali l’impegno, l’amicizia, la creatività, e il pensiero strategico; ma neppure, al tempo stesso, i pericoli reali e immediati cui espone un utilizzo improprio di Pokémon GO.
“Improprio” qui è la parola chiave, che di per sé basterebbe a confutare le numerose critiche, questa volta mosse dalle autorità civili e dai privati cittadini, nei confronti dell’applicazione in sé. I fatti di cronaca non mancano di certo: un ragazzo ucciso e un altro ferito in uno scontro a fuoco in Guatemala, un incidente stradale a Baltimora, un furto di barca a Liverpool, due cadute fatali da una scogliera in California, tutti accomunati dall’utilizzo di Pokémon GO. Malauguratamente, essi ci parlano però più dell’idiozia dilagante a livello di genere umano che del rischio intrinseco legato a un prodotto virtuale (con tutto il rispetto, se non noti una scogliera giocando a Pokémon, a questo punto anche accendere un forno a microonde potrebbe rappresentare un pericolo mortale per te). Nel momento in cui portiamo il virtuale nella realtà (e viceversa), dobbiamo per forza raddoppiare il livello di attenzione e responsabilità. Ma, come ci mostra del resto l’esempio iraniano, la repressione non è quasi mai di aiuto.
Se l’informatizzazione globale ci ha insegnato qualcosa è che, nel bene e nel male, non si possono porre freni alla diffusione di idee e prodotti. Tecnicamente, nemmeno Telegram (il cugino figo di Whatsapp) è stato approvato nella repubblica persiana: le statistiche ci dicono che più o meno un iraniano su quattro ne fa utilizzo regolarmente. I programmi per bypassare i blocchi governativi non scarseggiano (prova ne è l’abbondanza di blog e il massiccio utilizzo di social nella regione), ma la soluzione più semplice sembra l’acquisto nei negozi di informativa di carte VPN. Il problema principale per gli allenatori locali? La mancanza di Pokéstop.
E così, ancora una volta, Pokémon GO ci ricorda nel suo piccolo che poco importa quanto severe (o assurde) siano le limitazioni che vogliono dividerci: la passione e il desiderio di condividere qualcosa di bello gli uni con gli altri trovano sempre il modo di vincere.
Un saluto ai colleghi allenatori iraniani: che le vostre strade siano sempre libere dagli Zubat (seriamente, a chi piacciono gli Zubat?).
– Federico Brajda –