Mi approccio alla notizia che sto per raccontarvi con animo abbastanza combattuto. Da un lato la disillusione nei confronti di un mondo che sta decisamente prendendo una piega sbagliata (condizione detta anche “sindrome del vecchio che osserva il cantiere”), e dall’altra un’invidia nei confronti delle nuove generazioni, a cui pare ormai tutto concesso. Lo so che può sembrare un delirio di qualcuno che ha fatto del Beerpong lo sport della sua vita, ma vi assicuro che non è così. Anzi, per una volta ho anche riflettuto.
L’occasione per il mio sfogo esistenziale me l’ha fornita la University of California, Irvine, che ha da poco annunciato l’avvio di un programma di borse di studio in eSport, più precisamente in League of Legends, per la fine del 2016. Si tratta di un vero e proprio punto di svolta all’interno del sistema scolastico americano, ma non una novità assoluta, dal momento che dall’inizio dell’anno già sei scuole private hanno istituito un programma analogo per i giocatori del MOBA di Riot.
Devo ammettere che leggendo la parola “eSport” mi stavano prendendo i classici cinque minuti. Perché va bene, siamo nerd, e ci sarà anche qualcuno che si sente un atleta a svitare il tappo della bottiglia d’acqua tra una partita e l’altra. Ma chi mai userebbe il termine “sport” come categoria di appartenenza di quello che semplicemente è un gioco? E con questo non voglio denigrare né League of Legends, né tantomeno i videogames in generale. Ma al di là delle caratteristiche in comune di competizione, svago e, talvolta, senso di appartenenza a una squadra, lo sport rimane un’attività fisica, e non credo che cliccare col mouse possa essere considerato tale. Altrimenti, se la mettiamo così, lanciamo una petizione per far inserire il gioco dell’oca e Monopoly alle prossime Olmpiadi.
Tornando alla notizia centrale, l’idea è saltata fuori dopo che il 72% degli studenti (su circa 1200) che hanno risposto a un questionario proposto dalla scuola stessa, si è identificato come gamer. E qui c’è, a mio avviso, il secondo problema. Io non voglio tirare fuori la solita frase “una volta si giocava a calcio in cortile”, perché lascia il tempo che trova. Ma mi permetto di dire una cosa: anche io tiravo due calci a un pallone, ma allo stesso tempo passavo anche diverse ore tra GameBoy, PC e PlayStation. Riuscivo a mantenere un equilibrio a mio avviso necessario per un ragazzino. Qui, invece, si tratta di capire quanto ormai lo svago videoludico sia diventato importante per le nuove generazioni, tanto da arrivare a dedicargli club, ritrovi e adesso borse di studio, in un contesto decisamente estraneo come quello scolastico. Ai miei tempi (che sia chiaro, non sono così lontani!) né io né qualsiasi altro mio amico si sarebbe identificato come un gamer, e questo la dice lunga su quanto ormai il tempo libero sia più che altro sinonimo di videogiochi.
Come ho già detto, non mi sento di essere totalmente polemico. Riconosco al Paese dello zio Sam la capacità di saper investire in qualsiasi cosa, se ciò significa garantirsi studenti potenzialmente superiori in quello che fanno. Mentre in Italia una cosa del genere sarebbe irrealizzabile, tra mancanza di fondi, genitori che si oppongono, e mille altre problematiche, gli USA tirano dritto come un cavallo col paraocchi. Si parla di un coffee-bar in stile coreano da costruire all’interno del campus, e il motivo è presto detto: uno studio ha notato, infatti, l’importanza avuta da questi locali nella crescita di popolarità del titolo e di rendimento dei gamers nello stato asiatico. L’intento dei responsabili della UCI è quello di creare un ambiente di aggregazione che serva a sviluppare il senso di appartenenza a un team, e più in generale alla scuola. E ciò significherebbe, nel prossimo futuro, la creazione di un modello che sia attuabile anche in altre Università pubbliche, vero obiettivo di Riot Games e della Irvine. E quindi via con campionati di LoL tra squadre collegiali provenienti dai quattro angoli del Paese a stelle e strisce, seguendo come esempio proprio quello degli sport “veri” come basket, football americano e così via.
Mi tolgo un ultimo sassolino dalla scarpa prima di lasciarvi. A leggere di campus e college, mi è subito saltato in mente tutto un mondo fantastico, fatto di feste in stile American Pie, Spring Break con ragazze disinibite, fratellanze e sorellanze, e tutto quanto di più trasgressivo e immorale possiate pensare. Tutto prontamente smontato all’idea di un tot di ragazzi occhialuti che si sfidano da un PC all’altro a legnarsi come dei fabbri con personaggi immaginari di un videogioco. Una domanda mi sorge spontanea: che fine ha fatto il buon vecchio college americano?
– Andrea Camelin –