La Disney ha deciso di giocare pesante al botteghino. Ogni anno le sale cinematografiche vedono almeno un blockbuster Marvel, un capolavoro Pixar, un lungometraggio d’animazione che funge da trampolino di lancio per tonnellate di merchandising e, oramai, un destino di regolari guerre stellari. Verrebbe da pensare che questi risultati siano sufficienti da garantirsi il dominio delle sale dalle poltrone vellutate, ma evidentemente questa posizione privilegiata non bastava alle alte cariche disneyane, e si è andato a consolidare un nuovo filone minerario da picconare alacremente. Sto ovviamente parlando dei remake e dei prequel/sequel live-action dedicati prevalentemente a tutti coloro che iniziano a vedere la propria giovinezza quale reliquia del passato. A farci caso, in effetti, dall’avvento dell’Alice “timburtoniana” quasi ogni anno abbiamo avuto modo di vedere una di queste bizzarre incarnazioni: Il grande e potente Oz, Cenerentola, Maleficent e, ora, Il Libro della Giungla.
Escludendo le fatiche Pixar, è mia impressione che gli ultimi esperimenti Disney siano poco più che una miscela alchemica atta allo spurgare guadagno, piuttosto che prodotti dotati di anima e spiccata dignità. La sincope che ho patito mentre Alice prendeva vita dalle tenebre di una stanza affollata è comparabile solamente con la sofferenza infertami nell’incappare in quel Pianeta delle scimmie del medesimo genitore; anche Maleficent, tanto osannato, non è riuscito a fare propriamente breccia nel mio cuore, men che meno quei disperati tentativi della Warner Bros. di instaurarsi a forza sull’onda vittoriosa delle fiabe reinventate (da Il cacciatore di giganti a Pan). L’avventura di Mowgli, insomma, non compie i primi passi su quello che si potrebbe definire un terreno fertile ed erboso.
Partiamo dalle questioni semplici: cos’è Il Libro della Giungla? Parlandone in giro ho notato che verte una certa confusione a riguardo. Non è un sequel, non è propriamente un reboot, non è un film animato in senso stretto e non sarebbe del tutto giusto etichettarlo come una rivisitazione della pietra miliare regalataci da Walfgang Reitherman nel ’67. La natura dell’opera, piuttosto, è a cavallo tra il suddetto cartone e l’originale serie di racconti di Kipling, finendo con lo strizzare l’occhio ad ambo le tifoserie senza tuttavia prendersi impegni seri con nessuno spasimante.
Mowgli, giovane cucciolo di uomo, si trova orfano e disperso nella giungla indiana quando la pantera Bagheera si imbatte nelle sue tenere carni. Piuttosto che avventarsi su di lui come farebbe un modaiolo sul buffet di un vernissage, mosso da pietà affida la minuscola creatura a un branco di lupi che, accettandolo, decide di mettere in discussione le regole della giungla a costo di inimicarsi temibili predatori. Il tempo scorre, e la feroce tigre Shere Khan, follemente rancorosa nei confronti degli uomini, scopre l’esistenza dell’infante e ne pretende con la forza l’eliminazione. Desideroso di non coinvolgere il proprio branco in una guerra, Mowgli sceglie di abbandonare la sua famiglia adottiva per trovare il proprio posto nel mondo, fin troppo consapevole che la sua nemesi non rinuncerà mai al cacciarlo.
Subito balza all’occhio quel prepotente uso di CGI che ha fatto credere ai più disattenti che si trattasse di una pellicola interamente modellata da un potente computer. In effetti poco manca che questa rientri nella categoria, visto che l’unico dettaglio “vero” presente su schermo è il minuscolo e sgraziato corpo di Neel Sethi, ma questa ingombrante presenza artificiale risulta perlopiù digesta se non fosse che il povero Mowgli, occasionalmente, non sia in grado di nascondere il fatto di star recitando in completa assenza di esseri viventi con cui interfacciarsi. Non sarò severo, gli attori-bambini mi hanno abituato a performance ben peggiori, soprattutto se si considera che nella soffocante realtà del blue/green screen lo stesso Sir Ian McKellen si sarebbe probabilmente raggomitolato in un angolo a versare copiose lacrime.
Neel Sethi si è salvato dalla mia stretta critica, ma la stessa fortuna non arride le altre fiere. Per quanto il doppiaggio originale si sia permesso di scomodare attoroni di comprovato talento e spiccata personalità (Bill Murray, Ben Kingsley e Christopher Walken tra tutti), la versione italiana si è scontrata con un muro di mediocrità. Certo, Neri Marcorè e Toni Servillo fanno del loro meglio per tenere testa alle carismatiche controparti statunitensi, ma la lotta è impari e la sconfitta è definitiva nel momento in cui a Walken si accosta Giancarlo Magalli. Tra tutte le voci nostrane, l’unica che risulta memorabile è quella del navigatissimo Alessandro Rossi, personaggio al limite dell’anonimato che ha prestato le sue corde vocali a innumerevoli antagonisti hollywoodiani. L’unica problematica di Alessandro è che, ogni tanto, potreste andare troppo a orecchio e sostituire inconsciamente la tigre Shere Khan con l’imperatore Shao Kahn, dando vita al miglior crossover che Mortal Kombat (non) abbia mai visto.
Un’altra piccola increspatura disturba la fruibilità di questa altrimenti ottima pellicola: la reinterpretazione del regista Jon Favreau non è completamente certa della propria identità. Per quanto l’impostazione sia caratterizzata da toni decisamente più drammatici dell’ormai cinquantenne cartone, e per quanto i tagli/approfondimenti siano selezionati con un indiscutibile gusto, alcuni elementi sono rimasti ancorati per puro fattore nostalgico. La presenza di Kaa, notevolmente ridimensionata, è esempio concreto di come un fattore minore all’interno della trama sia impreziosito sopra misura (contate che la voce inglese esce dalle carnose labbra di Scarlett Johansson) per tenere testa a quello che era uno dei profili più accattivanti del film disneyano. Ulteriormente straniante è l’introduzione di motivetti canori quasi totalmente fuori luogo: “Lo stretto indispensabile” e “Voglio essere come te” sono certamente delle nenie adorabili, ma poco si adattano a questa visione più matura in cui re Luigi (Re Louis, se preferite) è un orangutan violento alto una decina di metri. È anche vero che, dal 2001, ogni volta che vedo un orangutan mi viene in mente Glenn Shadix che fa sesso vestito da scimmia, il che non aiuta.
Vista la significativa differenza nella natura stessa delle due opere, è difficile stabilire quale Libro della Giungla sia il migliore tra quelli creati dalla Disney, ma questa più recente aggiunge all’equazione narrativa quel senso di pericolo teatrale che gli adulti sapranno certamente apprezzare. Pur soggettivamente preferendo il neonato live-action alle animazioni che hanno formato la mia infanzia, mi trovo a storcere il naso per le note autoreferenziali immesse a forza, le quali finiscono irrimediabilmente per minare l’esperienza. Resta nondimeno una pellicola più che godibile, se non una delle migliori recentemente uscite dal castello incantato presidiato da Topolino. Raccomandata.
– Walter Ferri –
Il Libro della Giungla – Recensione
Isola Illyon
- Neel Sethi si dimostra capace;
- Comparto narrativo solido;
- Vi sono abbastanza differenze per potersi godere un classico con nuovi occhi;
- Il cast di voci italiane non comparabile ai talenti americani;
- Piccole scelte discutibili;