“L’ora del Diavolo”, la racconta di tredici racconti scritti da Alessio Del Debbio, è un libro strano. A prima vista si pone un intento non proprio originale: rielaborare l’eterna lotta fra bene e male (di cui vi abbiamo parlato anche qui) in chiave diversa, raccogliendosi attorno alla figura centrale dell’Arcinemico. Il che sconfessa già in partenza la supposta originalità, perché chiunque scelga di scrivere del Diavolo è destinato a doversi confrontare con la sterminata schiera di predecessori che ne hanno esplorato un po’ tutte le possibili sfaccettature: da quello letterario di Bulgakov al memorabile Al Pacino ne “L’avvocato del Diavolo”, il tema è topico e ormai oltre l’abusato.
Ma ecco che arriva la prima sorpresa: il Diavolo di Del Debbio non risente dell’influenza di nessun suo omonimo. Al contrario, ricalca lo stereotipo-base da essere incredibilmente naif. Il che emerge con terribile chiarezza fin dal primo racconto, nel quale viene dipinto il classico biondino ben vestito che seduce, inganna e sghignazza (al poco verosimile suono di “Ahr ahr”). La partenza non è delle migliori.
I difetti del libro si ritrovano in tutti gli altri racconti che ricalcano l’impianto narrativo del primo: c’è il Diavolo, c’è qualcuno che ha fatto un patto col Diavolo, il Diavolo vince e se la ride, eccetera. Si naviga così fino a “La luna sul fondo” con un certo sconforto (scarsamente convinti dalla variazione proposta ne “Il guardiano degli oceanini”). Poi, al quinto racconto, l’autore riesce finalmente a liberarsi dalla necessità di proporre variazioni sul tema Faustiano: cambia tutto, stringe i tempi e si alza su un gradino di lirismo e semplicità che stende il lettore. Il quale si chiede, perplesso, chi abbia scritto tutti i racconti prima. Quello stesso Del Debbio lo ritroviamo in “Gli uomini della neve”, nel quale viene riproposto un intreccio narrativo legato a dinamiche familiari con un fantastico dolceamaro che funziona assai meglio di certi abusati cliché. E questo è il primo merito dell’autore, che sembra covare un’anima capace di andare oltre la banalità di partenza (un’anima che talvolta fa capolino anche nei racconti meno riusciti e che non si lega necessariamente a toni chiari, come dimostra “Il violinista del diavolo”).
Paradossalmente, il secondo vero punto di forza del libro è quello che col Diavolo ha meno a che fare. Tra “La guerra del fatonero” e “Le fate di pioggia”, l’Autore è capace di sovrapporre un intero universo fantastico agli spazi geografici della Toscana: la mancanza d’inventiva che sembra ammorbare metà del libro diventa (altrove) esplosione di nomi, razze ed entità contestualizzate nello spazio e nel tempo con rara precisione.
Nei due racconti si dipana una piccola epica fantasy delle Alpi Apuane che merita di essere letta, un’epica nella quale, tutto sommato, il Diavolo sta sullo sfondo: è il nemico di cui ogni narrazione ha bisogno, ma l’intera struttura funzionerebbe ugualmente bene se al posto di Satana ci fossero Voldemort, Darth Vader o Peppa Pig.
Si chiude il libro con un ritorno degli Oceanini che cerca di offrire (senza riuscirci) una prima persona da Marine nel Vietnam, e l’inatteso e divertente “Che fine ha fatto Babbo Natale?”. Dall’elenco mancano “Le voci alla balza”, che ricorda una puntata di Piccoli Brividi, e “Il mercante di sogni”, che più che un racconto è un monologo con il quale il Diavolo ci ricorda per l’ennesima volta chi è e cosa fa. Il desiderio di vendersi l’anima pur di zittirlo è forte.
Per tutte le informazioni sull’autore e sul libro, vi rimando al sito ufficiale.
– Luca Pappalardo –
- La piccola epica di streghi, fate, folletti e Omi Selvatici;
- Le tracce di un tono narrativo più semplice e pulito di quello dominante.
- Il Diavolo e la terra bruciata che fa tutt’intorno a sé;