Fino a che punto un genere narrativo può arrivare a definire se stesso attraverso le tematiche di cui tratta al di là dei semplici stilemi con cui tradizionalmente sviluppa una trama? Voglio dire, è giusto identificare un genere solamente riconoscendone i tratti puramente stilistici, oppure è possibile travalicare le categorizzazioni standard, dettate della critica e dell’accademia, e soffermarsi maggiormente sul che cosa una storia ci racconti, piuttosto che sul come lo faccia? Ecco un esempio per farmi capire, limitandomi alle tipologie di storie di cui siamo abituati a trattare qui sull’Isola: il genere fantasy dev’essere inteso solo come spade da recuperare, donzelle da salvare, draghi da abbattere, re cattivi da spodestare, anelli da distruggere e orchi da macellare? Il genere fantascientifico è solo quello in cui navi spaziali superano la velocità della luce, nuove galassie vanno esplorate, si viaggia nel tempo, la razza umana viene soppiantata dai robot e un’invasione aliena risveglia nell’umanità un senso sopito di appartenenza che permette di respingere i visitatori? Io penso di no.
Piuttosto, penso che proprio questi due generi nel loro arco evolutivo abbiano saputo, meglio di altri, intercettare il mutare del sentire comune del pubblico di massa in precisi momenti storici e rielaborare in varie forme, sempre attuali, i cambiamenti socio-culturali che ne sono derivati. È il processo che in parole povere chiamiamo immaginario collettivo.
Ebbene, per restituire queste trasformazioni al pubblico sotto forma di linguaggi che siano comprensibili non solamente agli antropologi – mi riferisco in particolare alla letteratura e al cinema, ma sono da considerare anche il merchandising, la musica delle colonne sonore e tutto quello che gravita attorno al concetto di “pop” – ma che siano in grado, allo stesso tempo, di imporsi come caratterizzanti di un’epoca perché in essi tutti si riconoscono a proprio modo, le storie devono necessariamente contenere un messaggio forte che tutti percepiscano come condiviso. Insomma, non bastano spade e stregoni o robot e astronavi: affinché una storia sia davvero fantasy o sci-fi è necessario saper intuire e riformulare aspettative, sogni e paure del proprio pubblico. È proprio quello che hanno fatto i grandi autori di questi due generi: tutti gli altri hanno solo provato a cavalcare l’onda di un effimero successo commerciale – adesso come nel passato – per poi sparire dalla memoria collettiva.
“Il Signore degli Anelli” non racconta di un gruppo di avventurieri che deve portare a termine una missione disperata per salvare il mondo. Racconta, invece, del potere dell’amicizia, degli orrori che la guerra porta sempre con sé, del pericolo che l’umanità corre ad affidarsi ciecamente al progresso tecnologico, dei disastri ambientali che potremmo creare sfruttando sistematicamente le risorse che abbiamo la fortuna di avere. Mostra come per cambiare il mondo si debba partire dalle piccole cose, e che ciascuno può fare la sua parte secondo le proprie possibilità. Ci ricorda che «possiamo soltanto decidere cosa fare con il tempo che ci viene concesso» e che sprecarlo è un male non solo per noi stessi, ma per tutti.
Il tema della salvaguardia ambientale – carissimo a Tolkien – è da sempre il maggiore interesse di uno degli attori hollywoodiani più bravi e amati di sempre, Leonardo DiCaprio. Il grande Leo ha deciso che con la sua casa di produzione cinematografica, la Appian Way, affiancherà la Paramount nella realizzazione della trasposizione filmica di “The Sandcastle Empire”, romanzo young adult scritto da Kayla Olson. La vicenda di quest’opera è ambientata in un fantascientifico futuro post-apocalittico, più precisamente nel 2049, anno in cui l’autrice immagina una Terra ormai arrivata al punto di non ritorno a causa di cambiamenti climatici irreversibili, danni all’ecosistema, catastrofi ambientali dovute alle inondazioni e problemi di sovrappopolazione. La storia è incentrata su una giovane donna di nome Eden che fugge dal campo di lavoro chiamato Wolfpack, una fazione di radicali che rovescia il governo e prende il controllo col pugno di ferro, unendo le forze con altre tre ragazze in fuga. Durante il suo viaggio troverà indizi utili a capire quello che è successo al padre scomparso e scoprire di essere proprio lei la chiave per abbattere il Wolfpack.
Solo un bel quadretto confortante o una realtà ipoteticamente realizzabile? Immagino che DiCaprio propenda per la seconda ipotesi, se ha visto nella trama di questo libro un’occasione per realizzare una pellicola che abbia i toni della denuncia, come d’altronde li ha, nel suo piccolo, questo romanzo. Del film si sa ancora ben poco, ma ciò che mi premeva sottolineare è il fatto che in un plot apparentemente banale – di certo il libro della Olson non diventerà un classico della narrativa di genere –, se pensato per colpire al cuore, è possibile riconoscere un messaggio profondo che è importante divulgare attraverso linguaggi che abbiano nell’immediatezza la loro qualità primaria, come per esempio la narrativa popolare, il fumetto e il cinema. Se leggo una storia, o guardo un film, la cui non-trama è fatta di nani che si pestano a morte con gli orchi, l’unica cosa che mi devo aspettare è quella di farmi quattro risate ignoranti. Che va benissimo, ci mancherebbe! Ma DiCaprio non ha deciso di investire soldi per girare un film con questo tipo di trama, e ciò la dice lunga su cosa significhi saper “leggere” un momento storico e dargli immagini e voce.
– Michele Martinelli –