Non c’è un altro modo per dirlo, quindi lo dico subito e basta. La trilogia de “Lo Hobbit” fa schifo. Che altro si può aggiungere? Potrei chiudere qui e tanti saluti, ma non state leggendo un forum qualsiasi su Tolkien in cui chiunque può dire cose ad minchiam solo per il gusto del flame più becero, bensì vi trovate in un portale italiano di fantasy e, pertanto, sarò professionale fino in fondo come è giusto che sia. Dunque, perché tornare a parlare ancora e proprio ora della trilogia cinematografica più chiacchierata degli ultimi anni? Perché giusto pochi giorni fa, in occasione dell’uscita nei negozi della versione estesa in DVD e Blu-Ray del terzo capitolo della serie, “La battaglia delle cinque armate”, sulle pagine del quotidiano inglese “The Guardian” è stato pubblicato un interessante articolo che riporta un’intervista al regista Peter Jackson, il quale conferma alcune sue dichiarazioni presenti nei contenuti speciali del suddetto cofanetto. Nel corso del dietro le quinte intitolato “The Gathering Clouds” (nella versione italiana “La tempesta si avvicina”) Jackson ammette, infatti, di aver riscontrato numerose difficoltà durante le riprese dei tre film una volta subentrato alla regia dopo l’abbandono di Guillermo Del Toro, il quale si era esasperato per i continui rinvii da parte della produzione. Il buon Peter si sarebbe trovato nell’odiosa situazione di prendere in mano un lavoro iniziato da altri, con un approccio diverso e con intenzioni diverse, lui che è abituato a lunghe preparazioni sulla sceneggiatura prima del lavoro sul campo (basti pensare che prima di iniziare le riprese de “Il Signore degli Anelli” il regista neozelandese ha impiegato ben tre anni e mezzo in studi preparativi). La fatica di inserirsi in un lavoro già avviato, con l’obbligo di rispettare tempi molto stretti, oltre ad avergli procurato un’ulcera, lo avrebbe perfino portato ad ammettere di non avere idea di cosa stesse facendo sul set in certi momenti – parole sue.
Insomma, la giustificazione per un risultato tanto scadente, uscita dalla bocca di Jackson in persona, sarebbe il fatto di aver preso in mano un lavoro concepito da un altro regista senza il tempo sufficiente per studiare un nuovo storyboard, e di essere stato costretto, per questi motivi, a farsi il mazzo per più di venti ore al giorno in uno stato di totale confusione e talvolta improvvisando, tra l’altro su qualcosa che non sentiva suo fino in fondo. Allora, ragazzi, vi assicuro che quando ho letto la notizia ho pensato che Dio esiste e che ogni tanto infonde saggezza anche alle pecorelle più smarrite. Lì per lì ho davvero apprezzato il fatto che un regista di fama internazionale, asceso all’Olimpo per averci regalato la migliore trasposizione cinematografica possibile di quell’opera epica che è “Il Signore degli Anelli”, andasse di fronte alla telecamera e dicesse come sono andate veramente le cose. E quello di inserire tali dichiarazioni addirittura negli extra del prezioso cofanetto va visto come un modo sincero di chiedere scusa, in qualche modo, ai milioni di fan delusi. Bene, peccato che, anche se le parole sono effettivamente quelle di Jackson, una pronta precisazione da parte di suo un portavoce sulle pagine di Stuff.co.nz ha ridimensionato a dovere la questione, proprio il giorno seguente la comparsa della famigerata intervista al “The Guardian”. In questa parziale smentita si spiega come le parole del regista siano state fraintese – e ti pareva – e che qualcuno, per gettare benzina sul fuoco, aveva pure deciso di creare un montaggio video di soli sei minuti a fronte dei quarantacinque totali di “The Gathering Clouds”, utilizzando ad arte solo i pezzi che parlano effettivamente delle molte difficoltà incontrate durante le riprese, ma lasciando volontariamente fuori le parti che spiegano come esse siano state superate in maniera positiva e con risultati soddisfacenti per tutti, Jackson compreso. Inoltre, si precisa che Jackson stesso ha volontariamente preso in mano un progetto già avviato, consapevole del fatto che il tempo a disposizione per la preparazione dei lavori fosse ormai agli sgoccioli. Insomma, quelle del regista sono dichiarazioni davvero sincere, ma estrapolate dal loro contesto globale. Effettivamente, a guardare il breve video divulgato in rete, il povero Peter ne esce come uno sconsolato strafatto con le occhiaie che parla a vanvera, e non come un regista che ammette di aver avuto dei problemi sul set.
Ora non ha senso domandarci come e quanto la trilogia de “Lo Hobbit” sarebbe potuta essere diversa – e magari migliore – se Peter Jackson avesse lavorato fin dal principio al progetto. Quello che ha senso è constatare come, a fronte di una delle spese più elevate a memoria d’uomo per la produzione di un film (circa 700 milioni di dollari), il successo finanziario dei quasi 3 miliardi di incasso abbia sicuramente fatto piacere a quelli della Warner Bros. e allo stesso regista, ma non abbia certamente nascosto il disappunto della critica e soprattutto dei veri appassionati tolkieniani, me compreso. Quello che maggiormente non è stato digerito è il fatto che una favola di meno di trecento pagine sia diventato una saga epica in tre atti, durante i quali si assiste ad una serie di castronerie e invenzioni rispetto al romanzo di Tolkien che fanno venire i brividi. Non che la trilogia tratta da “Il Signore degli Anelli” sia esente da cambiamenti, ma parliamo pur sempre di scelte accettabili per rendere fruibile sul grande schermo un’opera letteraria così complessa, rispettandone la trama e il significato. Qui è un’altra storia. Se abbiamo capito il motivo di una regia tanto scadente a livello tecnico grazie alle ammissioni del caro Peter, quello che non possiamo accettare sono le scelte palesemente dettate dalla volontà di romanzare la storia per renderla appetibile al più largo spettro di pubblico possibile, e che portano ad uno stravolgimento totale della storia. Ne “Lo Hobbit” non c’è un vero cattivo da combattere? Bene, diamo questo ruolo ad Azog, e facciamo finta che lui non sia in realtà morto nella battaglia alle porte di Moria, ma che muoia per mano di Thorin. Quest’ultimo, che muore alla fine del romanzo ma non certo ucciso da un già defunto orco bianco, appare così un eroe, e quasi ci si dimentica che in realtà tutto il casino nasce dalla sua cupidigia e dalla sua avarizia. Ma tutti i tredici nani sono pensati, chi più chi meno, come intrepidi guerrieri armati di tutto punto, mentre nel libro di Tolkien vengono descritti più come dei simpatici gnomi barbuti con mantello, cappuccio a punta e piccone. Non entro nemmeno nel merito della storia d’amore tra il nano Kili e la totalmente inventata elfa Tauriel, messa lì solo per far andare al cinema anche ragazze e bambine, visto che la favola è totalmente priva di personaggi femminili. Per non parlare poi di Radagast il Bruno, che nel libro è solo nominato da Gandalf, troppo esageratamente comico. E che dire di quegli esseri simili ai Tremors che vediamo durante la battaglia finale e che dilaniano montagne intere? Ma da dove diavolo saltano fuori? E poi la cosa che personalmente mi sta più sulle palle di tutte: ma chi ha scritto i dialoghi? Come si fa a mettere in bocca a Saruman parole come “funghi allucinogeni” e far dire a Beorn che gli orchi uccidono “per sport”? Robe da far accapponare la pelle a me, figuriamoci al linguista Tolkien.
Cosa salvare di questo film? Certamente con il re degli Elfi di Bosco Atro Thranduil, maestoso e fiero come l’ho sempre immaginato. Anche Smaug devo dire che mi è piaciuto, un vero portento di motion capture e computer grafica. Così pure la battaglia tra i giganti di pietra, volutamente esagerata nel film, visto che Tolkien le dedica poche righe, forse solo per ingrandire metaforicamente una fortissima tempesta, ma pur sempre scenicamente spettacolare. Ho apprezzato, poi, lo sforzo di dare a “Lo Hobbit” un tono leggero totalmente diverso rispetto a “Il Signore degli Anelli” (vedi Radagast), cercando di rispettare le intenzioni di Tolkien quando scrisse da una parte una favola per ragazzi divertente e tetra, e dall’altra un’epica cavalleresca dai toni aulici. Altro? Fatemi pensare… No, nient’altro, mi dispiace Peter.
– Michele Martinelli –