Adattatori italiani, grazie per aver cambiato il titolo, perché l’americano Chappie faceva un po’ schifo. O meglio, era anche piuttosto carino… se fosse stato un film per bambini, al massimo adolescenziale. In effetti, Chappie ha un po’ lo stesso suono di Wall∙E, che fra l’altro è stato davvero un gran film di animazione.
Però Chappie è un prodotto per adulti: per fortuna che in Italia gli hanno definitivamente cambiato nome nel più serio Humandroid, e non importa se è la crescita il tema portante del film.
Avevo letto qualche recensione americana, ed ero rimasta molto shockata dalla carenza di stelline assegnate al film. Addirittura qualcuno aveva azzardato una sola stellina su cinque, spalando fango su un Chappie insopportabile, uno Hugh Jackman che interpreta un personaggio superficiale, un Sigourney Weaver troppo di secondo piano, dei malavitosi che non facevano i malavitosi… ma io dico: e allora?
Va bene, Chappie può piacere e non piacere: a me è piaciuto tantissimo, è un bambino che cresce, che impara troppo in pochissimo tempo, e che ha le idee molto confuse. È un bambino sballottato da una parte all’altra, che è costretto ad atteggiarsi ad adulto e prendere decisioni critiche.
Hugh Jackman (Vincent Moore) ha un personaggio lineare, un ex-soldato stronzo che, indovinate un po’, fa l’ex-soldato stronzo che fa di tutto per avere più fondi per il suo progetto e minare quello avversario. Tutto qua: non odia visceralmente Chappie o il suo creatore per un motivo preciso, ma sta rischiando il licenziamento a causa loro. Inoltre, finalmente uno Hugh Jackman che si è scollato di dosso il ruolo di Wolverine e interpreta qualcosa di diverso. Se lo volete vedere in versione “X-Men”, guardate X-Men e non sprecate soldi, ma non è davvero il caso di screditare l’ottima recitazione tenuta in questo ruolo per lui insolito.
Sigourney Weaver (Michelle Bradley) ha effettivamente una parte minima. Sì, ma non è che sei un gigante del cinema allora devi essere sempre protagonista, o con un’ora di scene dedicate a te in un film che ne dura due. Ha fatto la sua parte, quella del capo di un’azienda che vende armi alla polizia: né più né meno, senza infamia e senza lode. Non c’era molto che un’attrice rodata potesse sbagliare, e non c’era molto che potesse dare ad un personaggio che compare sì e no in cinque scene. A lei il compito di dire di no a Deon Wilson, il creatore, interpretato da un eccellente Dev Patel (Skins, The Millionaire, L’ultimo dominatore dell’Aria); e poi è sempre lei a dire di sì a Vincent Moore quando sarà ora di sguinzagliare il suo robot.
I malavitosi che non fanno i malavitosi, invece, sono una critica che non condivido, ma capisco un po’ di più, poiché nel gusto comune “i cattivi sono i cattivi e i buoni sono i buoni”. I ruoli si intrecciano raramente, ma questo film è incentrato su un gruppo di antieroi. Non c’è “bene” nei protagonisti, in nessuno di loro, neanche in Deon. E non è che siano meno sporchi degli antagonisti, anzi! Comprendo perché questa cosa abbia quindi disorientato la critica e, invece, trovato il favore degli spettatori, che per una volta hanno trovato dei protagonisti più “volgari” e alla loro portata, più veri, che sono riusciti a tirare fuori gli aspetti positivi che ogni persona possiede.
Humandroid ha tantissimi punti solidi: il primo è proprio la presenza di una valanga di antieroi. Tutti lo sono, in questo film non esiste né il bene, né il male assoluto. Vincent cerca in tutti i modi si proteggere Johannesburg dal presunto pericolo rappresentato dalle IA di Deon. Michelle nega aiuto a Deon, ma è il capo che tutti sognano, forte e in grado di motivare i propri dipendenti. Deon si ribella al veto dell’autorità, commettendo un peccato di curiosità e rendendo veramente “vivo” un robot a cui impara a volere molto bene nonostante la creatura non lo comprenda. I malavitosi vogliono sfruttare Chappie per commettere il colpo della vita, ma pian piano si affezionano a lui e, infine, lo aiutano… un po’ per convenienza, un po’ perché ormai è uno della famiglia.
Quindi gli antieroi sono il punto positivo del film? Sì. Ci siamo tutti scocciati delle fiabe disneyane, degli young adult che devono sempre e solo finire bene, dei film troppo e ingiustificatamente fracassoni nei quali emerge, unico e incontrastato, lui: l’eroe belloccio, impavido, coraggioso, senza una macchia. Ci piace Fast & Furious, una amalgama di cazzoni, criminali ma non troppo, e soprattutto legati da affetto disinteressato.
Ben venga quindi, in questo film, il pool di gangster della domenica, gli attori non bellocci (grazie Eterni, grazie!) e una trama in grado di miscelare a dovere azione e riflessione.
A parte questa considerazione che alcuni troveranno molto superficiale, Humandroid ha all’interno tutta un’altra valanga di buoni concetti, riguardanti il processo di crescita di un cervello in grado di apprendere, la vita e la morte, l’etica e la morale (che non coincidono quasi mai), la famiglia, il rapporto fra creatore e creatura, e anche l’amore.
Non a caso questa volta è la Creatura a salvare il Creatore, rendendolo come lei. Chi ha paragonato la figura di Chappie a quella di Maria di Metropolis o ad un banale automa meccanico con un “upgrade”, non ha capito niente del film. Humandroid è un caso più unico che raro, che ribalta del tutto il classicismo per cui è sempre il Creatore ad avere in pugno la Creatura, a salvarla, spronarla, darle speranza o a disconoscerla. In genere è sempre il Creatore quello indistruttibile, eterno, onnipotente, mentre qui, come Chappie ripete più volte, è lui quello indistruttibile, perché fatto di titanio, è lui quello che sa come non andare nel “secondo mondo” (quello dei morti), e che è onnipotente perché in grado di salvare gli altri.
Il film è complesso dal punto di vista filosofico, ma raramente sono uscita dal cinema così contenta.
Humandroid si qualifica, a mio parere, come uno dei film sci-fi più degni di nota degli ultimi anni. Non ha particolari sbavature tecniche, ha una colonna sonora interessante, che salta dalle musichette sceme ai virtuosismi tipici di Hans Zimmer. Sceneggiatura e regia ben fatte e ben impacchettate. Attori ottimi, soprattutto gli interpreti di Ninja e Yolandi, due malavitosi, che nella realtà sono due rapper originari di Johannesburg – proprio come lo è anche Neill Blomkamp. Molto bello che nel film, ambientato nel 2016, siano stati introdotti due personaggi realmente esistenti in quella città.
Come sempre, poi, il regista cita a destra e a manca, riuscendo a metterci dentro pure un pezzo di Master of the Universe. Parolacce a pioggia, colori brillanti in contrasto con il grigiume dei sobborghi della città, gangster, robot dal design un po’ retrò: tutto concorre a rendere Humandroid un film “popolare” e pop.
Concludo inserendo un breve riassunto della trama:
Johannesburg, 2016. La città pullula di criminali e la TetraVaal fornisce alla polizia gli scout, robot di ultima generazione, per aiutare i soldati a mantenere l’ordine. Chappie nasce perché alcuni malavitosi rapiscono e minacciano Deon: o spegne tutti gli scout, o che gli fornisca un’arma per combatterli! Il robot che Deon fa nascere deve però apprendere ogni cosa e non importa se promette al suo creatore di non commettere crimini: come è ovvio, il processo di crescita passa attraverso errori e incomprensioni, che insegnano a Chappie come camminare da solo nel mondo, e a chi gli sta intorno cosa vuol dire voler bene a qualcuno di diverso. Vincent Moore, intanto, cerca il modo di distruggere il lavoro di Deon ed emergere alla TetraVaal.
Dopo due ore di angherie distribuite un po’ su tutti, il finale apparentemente di un buonismo scontato non è così sgradevole: se lo sono sudato e, in ogni caso, non è da sottovalutare la parola “apparentemente”, perché nasconde una grande insidia filosofica.
E poi? E poi si torna a casa.
– Lucrezia S. Franzon –
- un androide diverso dal solito, con un interessantissimo percorso di crescita;
- filosofia presente, ma sapientemente mescolata all'azione;
- una buona trama, che stacca quasi subito la creatura dal suo creatore, mettendola in mano ad altri;
- tecnicamente quasi perfetto;
- citazioni e dettagli amabili, amati e di valore;
- intitolarlo Chappie significa instupidirlo e indurre la gente a non andare in sala;
- errore enorme ambientarlo nel 2016 se voleva essere verosimile come pretendeva;