Il film di Padhila ha, bene o male, spaccato l’opinione generale, tra chi grida allo scempio e chi lo difende: ma qual è la verità? Scopriamolo!
Di questo nuovo film, reboot/remake del classico di Verhoeven del 1987, si è già parlato a queste coordinate su Isola Illyon e chi vi scrive ne ha anche discusso un po’ in una prima videorecensione, i cui concetti profondi ed intelligenti (si, me la canto e le ma suono da solo, ma non badateci) sono risultati essere tutto sommato fondati. Chiaramente, ci si era basati sui trailers diffusi e, per nostra stessa ammissione, avevamo convenuto che, se il film fosse risultato “un buon film”, avremmo porto pubbliche scuse, riconoscendo d’esserci sbagliati.
Non siamo certo al punto di doverlo fare, dato si è lungi dall’essere di fronte ad un film pienamente riuscito.
Eppure, il nuovo RoboCop non è totalmente da buttare. Qualcosa si salva, forse perché si fa più credito di fantasia di quanto il regista e gli sceneggiatori meriterebbero, forse perché, in fondo, ci stiamo assuefacendo a certi “modi” di fare cinema, forse-forse perché, alla fine, il Diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge.
Èil caso, dunque, di fare una dissertazione su questo nuovo prodotto che, è superfluo dirlo, quasi di sicuro conoscerà un seguito.
Senza voler offrire spoiler che potrebbero rovinare quelle poche cose nuove che il film offre, la trama si sviluppa in maniera molto diversa dal primo capitolo, riuscendo quasi ad accorpare i temi principali dei tre film precedenti: c’è spazio per la rinascita del nostro Alex Murphy e la sua “giustizia” personale, temi propri del primo, c’è modo di approfondire il tema della corruzione tra le cariche di polizia, affrontato nel secondo, ed infine la maniacale ricerca di potere da parte della corporazione e delle alte cariche (proprie di un po’ tutti i film ma in special modo di quella boiat del terzo), unite alla figura positiva e umana del dottore/ricercatore che si relaziona con Murphy/RoboCop (secondo e terzo film).
La dinamica all’inizio tende ad essere molto, molto lenta, eppure offre uno spaccato differente, quasi attuale e credibile, ossia l’impiego di forze armate robotiche al di fuori dell’America (droni, robot e gli ED 209), che costituisce un mercato in crescita e, quasi in contrasto, i dubbi sull’introduzione di una forza di polizia autonoma e robottizzata anche all’interno dei propri confini.
Il tema dell’attualizzazione e modernizzazione, in questo senso, è ben riuscito, va ammesso: l’istrionico Samuel L. Jackson, quale “voce” giornalistica al soldo dei poteri forti è abbastanza credibile, richiamando alla mente non solo i temi centrali del cinema di Verhoeven, emersi in Starship Troopers (parlo del primo film, del secondo mi rifiuto di ricordare l’esistenza), ma anche la Voce di Londra presentata nell’adattamento della grafic novel di Alan Moore, V for Vendetta (adattato, a mio modesto giudizio, in maniera più che passabile sul grande schermo, nel 2005), gettando uno sguardo (magari un po’ sbilenco) su quello che è il problema dell’informazione e di chi la gestisce.
Troviamo un sempre bravissimo Gary Oldman (da Bram Stoker’s Dracula ai vari Batman di Nolan), qui in veste di personaggio buono, così tanto da non sembrare nemmeno credibile appieno: a differenza del poliziotto e poi commissario Gordon nei già citati Batman, qui l’umanizzazione non è venuta proprio benissimo e, per quanto Oldman sia un attore fantastico (a livello umano, invece, pare non sia ‘sta gran bella persona ma transeat), qui non sembra aver dato il meglio.
Gli altri attori invece, dallo stranamente gonfio in viso Michael Keaton, il cattivo (o se preferite, il “diversamente s*****o”) del film, fino allo stesso inespressivo protagonista Joel Kinnaman (nomen omen, ma questa la capiranno soltanto a Bari), passano in second’ordine: ci fossero o meno, non te ne accorgeresti neanche, dato non aggiungono praticamente nulla: menzione speciale, invece, va a quella bonaz brava attrice rispondente al nome di Abbie Cornish (chiamata “la nuova Nicole Kidman”) che, poverina, ci mette un sacco di impegno e tutto sommato risulta credibile nel ruolo della moglie afflitta e combattuta tra l’amore verso il marito e l’egoismo di volerlo mantenere in vita, consegnandolo ad una vita differente.
No, mi spiace, non ci sono scene di nudo nel film dell’attrice.
Sotto il profilo della violenza, si era detto da più parti (me compreso) che il nuovo RoboCop non convinceva perché questa componente pareva essere molto edulcorata: tanto per quella palese, ossia omicidi e sparatorie, quanto per quella prettamente implicita, ossia la cyberizzazione di Murphy, che sembrava essere più un moderno Kyashan, il ragazzo androide (quanti ricordi…) vestito come Ciclope degli X-men posseduto dalla Forza Fenice, che non un uomo il cui corpo fosse stato “violentato” con l’innesto di circuiti, viti, cavi, metallo e quant’altro nella propria carne: questo, non perché noi si sia dei maniaci, ma perché era questo che offriva il RoboCop del 1987, uno di quei film che divengono cult già due giorni dopo la loro diffusione, tanto per la feroce critica e satira sociali, sia per gli eccessi che suscitavano, anche nella violenza più pura, quasi un sorriso nello spettatore; la commistione uomo-macchina era mostrata come un qualcosa di palesemente contro natura.
Ora, se è vero che tutto questo non c’è, dato che la pellicola è PG- 13 (vietato a minori di anni 13 non accompagnati), mentre il primo RoboCop aveva ottenuto addirittura una X dall’MPAA, l’organo di autocontrollo e autocensura dei film in America (la X è per i film per soli adulti, fatevi due conti) prima di riuscire ad ottenere una R (minori di 17 anni solo se accompagnati) con l’introduzione di scene più leggere e meno cruente (successivamente queste sarebbero state introdotte nelle versioni domestiche in home video, in barba alla censura!), e quindi si può considerare il nuovo RoboCop un film per “ragazzini d’oggi”, è pur vero che qualche scena un po’ forte, se non disturbante (per me, almeno) è presente: una è quella riguardante il momento in cui, per convincere Alex Murphy che è davvero “rinato” in una veste cybernetica, lo disassemblano lasciandogli solo la testa, la trachea e l’apparato cardiorespiratorio in vista; la seconda è quando il cyborg viene nutrito con tubicini direttamente nel cervello per mantenere i tessuti ancora vivi.
Ovviamente, si conferma anche che la morte di Murphy è resa molto bene, e porta con sè un po’ di pathos, pur senza aver nulla della violenza e crudezza delle scene che in molti ricordano.
Infine, l’umanizzazione del personaggio è stata una aggiunta nuova, tutto sommato, dato c’è maggiore presenza di Alex nelle vesti di cyborg che non quella di una macchina con tessuti umani viventi come nel film del 1987: questa cosa è risultata gradevole, perchè segna una netta demarcazione rispetto a quanto si era visto, ed offre una rilettura un po’ più credibile di certe situazioni che venivano lasciate quasi in sospeso, sfruttate solo per portare avanti alcuni elementi di trama, magari non ben sviluppati nelle pellicole precedenti.
Alex Murphy, in questo film, vive molto più a contatto della propria famiglia rispetto a quanto accadeva in precedenza: anzi, qui la famiglia non solo non ne rifiuta l’essere tornato “in vita” (un breve accenno non troppo approfondito era stato proposto nel film RoboCop 2) ma anzi ne desidera il contatto, in quelle pratiche quotidiane che sono, ad esempio, il guardare una partita assieme al proprio padre: inoltre, c’è un accenno di filosofia che mi ha ricordato il dialogo di “Al di là dei sogni” (un film onirico bellissimo con Robin Williams, che posso solo definire come “musica da guardare e colori da ascoltare”) in cui ci si interroga sul cosa sia “l’Io” di una persona, e che riporto testualmente:
“Io mi trovo davvero qui?”
“Tu? Ma chi sei tu? Ad esempio, sei il tuo braccio? La tua gamba?”
“Anche.”
“Davvero? Se perdessi ogni tua parte non saresti sempre tu?”
“Si, sarei sempre io.”
“Allora, cos’è l’Io?”
“Il cervello immagino.”
“Il cervello? Il cervello è una parte del corpo come le unghie o il cuore, perché è quella la parte che ti rappresenta?”
“Perché l’Io è una specie di voce nella mia testa, la parte che pensa, dà sensazioni, che è consapevole della mia esistenza.”
“Se sei consapevole di esistere, allora esisti.”
Ciò è molto bello, sempre se ammettiamo di voler ricercare chissà quali significati in una pellicola hollywoodiana contemporanea che, viceversa, si potrebbe considerare assai vuota, per quanto abbellita da una buona regia, quella tipica di questo tipo di film, tesa a valorizzare le scene d’azione.
Sotto questi profili, si precisa, il nuovo RoboCop potrebbe finanche rischiare di risultare un buon film ed offrire allo spettatore una visione gradevole.
Tutto questo, però, scontenta –ovviamente– coloro che non riescono ad andare oltre la semplice considerazione che il film, semplicemente, sia un reboot di quello precedente e che offra una lettura assai diversa (ed io, lo ammetto, sono uno di essi): perché è sotto questo profilo che il film inizia a scricchiolare: non per domande concettuali, non perché la trama sia poco credibile, anzi…certe cose forse vengono affrontate meglio in questa pellicola, e nemmeno perché siano state apportate alcune modifiche non ben comprensibili (Lewis, la poliziotta caucasica e collega di lavoro di Murphy, dalla capigliatura corta e bionda e con due attributi sotto degni di un uomo, qui è una persona di colore ed è…uomo, dotato però di una sensibilità un po’ troppo marcata…eh, il progresso!), ma perché è, complessivamente, un film paraculo.
Si, so che è una brutta parola, ma è quella che meglio incarna questo film: come ho spiegato nella videorecensione vera e propria al film, se la pellicola avesse avuto il coraggio di osare, magari oggi staremmo parlando di un flop, magari di un inatteso ed insospettabile successo di botteghino e di critica (il film è costato 100 milioni di dollari e ne ha portati a casa, attualmente, circa 189 –fonte Movieplayer.it– che è si, un incasso attivo, ma di certo è lungi da ciò che si sperava di portare a casa).
Il problema è che, come più volte detto, Hollywood è alla canna del gas e respira copiosamente, cercando il proprio suicidio.
Non ci sono idee e i remake/reboot degli anni 80 e 90 non funzionano, non funzionano e, soprattutto, non funzionano.
Non solo perché certi film sono cult in quanto sono arrivati all’improvviso, in un dato momento storico, stupendo per tematiche, effetti speciali o solo originalità della storia, ma perché erano fatti CON PASSIONE: non si è così ingenui dall’affermare che erano film fatti solo per l’arte ché, da che mondo è mondo, la pagnotta la si deve portare a casa; ma è evidente che c’è uno spirito differente e, se prima si cercava di mostrare qualcosa, di insegnare, fare scuola, stupire, oggi si cerca solo il guadagno facile: provate a pensare allo stesso Peter Jackson che è riuscito a rovinare il suo stesso franchise, violentando parecchi capisaldi della Terra di Mezzo che lui stesso ha plasmato dieci anni fa, anno più, anno meno.
Se persino un regista come P. Jackson non riesce a rispettare e replicare sé stesso, figuratevi cosa può riuscire a fare un regista col lavoro di un altro: non sono lontani come alcuni vorrebbero i ricordi di reboot/remake di film come Total Recall con un pur decente Colin Farrel, o altri film che hanno pescato nella cesta dei ricordi per trovare uno straccio di idea da riciclare.
E dunque, cosa esattamente non va nel film?
Ciò che non va è il ritmo della pellicola, a tratti lento; non va il tenore del film che, sebbene offra una gradevole variazione sul tema (almeno quello lo fa), si presenta a tratti così diverso da poter essere tranquillamente un progetto differente e a sé stante; non vanno granché nemmeno i personaggi che non sono particolarmente approfonditi e, specie all’inizio, la trama è caratterizzata da un intreccio che non consente subito di realizzare chi siano i protagonisti rispetto ai comprimari; non va nemmeno il fatto che il film si prenda così tanto sul serio, perché è questo ciò che maggiormente affossa la visione: è un film “serio”, non ironico, è un film che vuole rappresentare le cose per come sono, senza iperboli o satira di mezzo ed è per questo che riesce quasi ad essere “antipatico”, perché la narrazione, le situazioni ed i personaggi divengono troppo seri.
Se il film avesse avuto il coraggio d’essere differente per davvero e se i produttori avessero scelto di narrare una storia simile, cioè ammettendo di aver tratto ispirazione dalla trama di RoboCop (che non è che fosse tanto originale anche all’epoca) e avessero quindi creato un film chiamato, non saprei, Cybercop o Robojustice, magari le cose sarebbero andate diversamente: poteva accadere, si, che il film richiamasse molta meno gente, o che la gente vedendolo avrebbe comunque fatto il confronto con RoboCop… ma poteva ancheuscirne fuori un film più originale perchè molto diverso e libero dalle pastoie di dover rispettare certi canoni ed attese che tutti quanti si aspettavano.
Ecco perché l’ho definito un film paraculo: ha voluto contare sul guadagno facile, quello che sarebbe venuto dai fan del film dell’epoca oppure dai fan dell’epoca, che sarebbero accorsi a vedere questo nuovo prodotto, oltre a tutte le nuove leve che sarebbero state attratte da un film così differente dagli altri (per i canoni odierni).
Il cinema di oggi non osa e non sperimenta più: non fosse così, non ci saremmo dovuti sorbire porcate come i cinepanettoni o il più miserabile Fuga di Cervelli.
– Leo d’Amato–