Gaiman torna a scrivere per adulti, ed il suo è un meraviglioso e malinconico inno alla memoria dell’infanzia.
Devo ammetterlo. Quando si tratta di Mr. Gaiman, il mio giudizio è di parte.
Dai tempi di Sandman ho sempre letto le sue opere – che si trattasse di graphic novels, di romanzi per adulti o di libri per bambini – con un misto di meraviglia e riverenza. Nel profondo del mio animo continuavo a ripetermi “vorrei averci pensato io!”. Ed è quello che ho pensato anche leggendo la sua ultima fatica, L’oceano alla fine del sentiero.
Gaiman è riuscito stavolta a scrivere un libro incategorizzabile, pensato per gli adulti, ma narrato da un bambino di sette anni, o, meglio, da un adulto che ricorda com’era, avere sette anni.
Qualcuno ha affermato che la Mondadori, che lo ha pubblicato, avrebbe dovuto inserirlo nella categoria dei romanzi per i più piccoli. Ma si sbaglia: un bambino potrebbe sì leggerlo, ma non potrebbe mai comprendere tutti i riferimenti, le analogie , perfino gli stati d’animo del protagonista.
Qui c’è tutta la magia, le avventure, le frustrazioni, le paure di un bambino, ma con la lucidità, e se vogliamo anche la nostalgia, di un uomo che ritorna nei luoghi della sua infanzia, si siede di fronte ad uno stagno – no, all’“oceano”, come la sua amica Lettie Hempstock si ostinava a chiamarlo – e comincia a ricordare, quasi per magia, persone ed avvenimenti che la sua memoria gli aveva fino a quel momento tenuto nascosti.
Ricorda com’è stato crescere, scontrarsi con una cattiva – Ursula – che è metafora del potere contro il quale a quell’età si è del tutto impotenti. Ricorda com’è stato essere aiutato dalle sue vicine, tre donne misteriose, le Hempstock, che incarnano la Triplice Dea nelle forme della Giovane, della Madre e della Vecchia. Ricorda le forze misteriose scatenate dal suicidio di un uomo.
Ritroviamo le tematiche tanto care a Gaiman degli universi paralleli, degli abitanti di un altrove che vivono tra noi, dell’amore viscerale e salvifico per i libri e la lettura, ed anche gli inevitabili gatti.
Non c’è morale qui, non c’è un fine ultimo. C’è solo… magia.
L’oceano alla fine del sentiero è come tutti gli altri libri del creatore della saga degli Eterni: ti cattura, ti risucchia, ti smuove dentro. Ti viene voglia di leggerlo con una matita a portata di mano, per poter prender nota di tutti i passaggi che ti fanno pensare “ecco, ha ragione, è proprio così… quasi quasi lo scrivo sul diario, lo posto su Facebook!”.
E non si tratta di semplice empatia col protagonista, ma di qualcosa di indefinibile che riesce ad avvincerti e a non lasciarti andare per quasi duecento pagine.
Con Gaiman la sospensione dell’incredulità, merce così rara in questi tempi di fantasy monotoni e ripetitivi, è assicurata. Ed io lo ringrazio, per questo, dal profondo del mio cuore di fangirl.
Grazie, Neil!
– Barbara Sergio-