Il fantasy classico si reinventa con il nuovo romanzo di Stefano Mancini.
Capita sempre più di rado di cambiare l’opinione che si ha di un libro in corso di lettura.
L’opera terza del romano Stefano Mancini è stata quindi una piacevole novità: dopo le pagine iniziali, un po’ lente anche a causa di un utilizzo esagerato delle virgole, ci si scopre ad apprezzare la capacità dell’autore di delineare con efficacia i profili di una nutrita schiera di personaggi. Ma è soprattutto il mix che Mancini cerca di creare tra il classic fantasy di stampo tolkeniano ed elementi nuovi ed originali inventati di sana pianta ciò che rende “Le Paludi d’Athakah” un interessante viaggio per il lettore, che si ritroverà nel bel mezzo di una guerra che ha ormai assunto toni epici, in compagnia di personaggi che ben riflettono le preferenze dell’autore per i grandi temi dell’onore, del coraggio, del tragico eroismo.
Dopo un secolo di logoranti, sanguinosi scontri tra elfi (ribattezzati “ryn”) e nani da una parte ed orchi (qui detti “musogrigio”), goblin ed umani dall’altra, Aurelien Lathlanduryl, sovrano elfico ormai stremato dal proseguire di un conflitto che va ormai avanti da troppo tempo, decide di tentare una sortita ed annientare il cuore pulsante dell’esercito nemico. Con un manipolo di uomini cercherà di raggiungere ed uccidere Kurush Lamadisangue, terribile argak che è riuscito nell’improba impresa di radunare sotto il suo vessillo le moltitudini di orchi, goblin ed umani che popolano l’Athakah, e che si tiene prudentemente nelle retrovie. Una volta morto il condottiero nemico la manifesta superiorità della coalizione elfi-nani potrà esprimersi al meglio, non più ostacolata dal numero e dalla coesione dell’esercito avversario. Il re degli elfi sarà coadiuvato da un piccolo drappello di cui fanno parte, oltre ai suoi più fidati commilitoni, anche i due sovrani del popolo dei nani: c’è quindi la prima novità che Mancini introduce, un’insolita diarchia che vede Karzan ed Hankar spartirsi equamente il trono dei barbuti alleati.
Da questo punto in poi si snoda una narrazione che non è affatto scontata: di solito questo tipo di scontri epocali sono l’epilogo di un libro, per Mancini è invece solo l’inizio di una lunga avventura che porterà il lettore dove non si sarebbe mai aspettato di arrivare, verso un finale che ha un sapore di epica tragicità.
Tutto il resto è spoiler, quindi mi fermo qui!
Lo stile adottato dall’autore cerca di essere più scorrevole del classico tolkeniano a cui è chiaramente ispirato.
In parte riesce nello scopo, grazie anche ai molti dialoghi ed alla varietà dei personaggi che attorniano il protagonista Aurelien. Purtroppo risente un po’ dell’uso eccessivo di aggettivi e dei molti dettagli di cui Mancini sembra non riuscire a fare a meno. Insieme alle tante virgole di cui parlavo prima, e a qualche errore qua e là, questi elementi contribuiscono a rallentare lo scorrere del testo.
In realtà ho avuto la netta impressione che l’operazione di editing sia stata limitata: probabilmente sarebbe bastata una revisione più accurata, una limatina qua e là, per rendere il tutto più snello e godibile. Un’occasione mancata. Cara casa editrice, impegnati di più!
C’è di buono che col progredire del romanzo lo stile si raffina ed acquista delle connotazioni più personali; ci si chiede quanto ci abbia messo l’autore a scriverlo, perché l’evoluzione è palese.
In definitiva un’opera al di sopra della media del fantasy nazionale, di cui speriamo di leggere presto il sequel.
– Barbara Sergio –