Era il 2010 quando Tim Burton partorì la sua personale rivisitazione de Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie, generando risultati disastrosi. Il lungometraggio attingeva ampiamente da ogni scritto di Lewis Carroll e dall’omonimo film animato della Disney, quindi rimaneggiava il tutto in modo da millantare una parvenza di coerenza, tentando di nascondere le ampie lacune logiche autodefinendosi sequel. Una scialba protagonista si trovava trainata a ripetere situazioni ben note, facendo leva su di una provvidenziale amnesia, con la sua caratterizzazione soffocata ulteriormente dall’invadente presenza del Cappellaio Matto interpretato da Johnny Depp. Le recensioni furono al vetriolo, ma la presenza di un suadente attore e una fame di mondi straordinari risvegliata dall’Avatar di James Cameron fecero sì che l’espediente filmico risultasse un successo al botteghino, decretando l’avvento di un sicuro secondo capitolo.
A distanza di sei anni eccoci dunque a discutere di Alice attraverso lo specchio, creatura disneyana a cui spetta l’arduo compito di riscattare o condannare il destino di un brand. Tim Burton – vuoi per una ritrovata saggezza, vuoi per possibili attriti con la sua ormai ex-compagna Helena Bonham Carter – ha abbandonato la seggiola del direttore a favore di James Bobin, personaggio noto per aver girato le ultime incarnazioni delle avventure di Kermit la rana e soci. Persa l’energia immaginifica della bizzarra celebrità, la buona riuscita della pellicola dipendeva visceralmente dalla sceneggiatura firmata da Linda Woolverton, la quale si è trovata ad affrontare il problema dell’aver esaurito gli spunti reperibili dai romanzi nel suo ultimo lavoro, dovendo dunque sconfinare necessariamente in un territorio sconosciuto.
Sono passati tre anni dall’ultima avventura di Alice (Mia Wasikowska) nell’Underland; liberatasi dai castigati dettami vittoriani, si è costruita una nuova vita come capitano del vascello mercantile Wonder, ultimo lascito dell’ormai defunto padre. I suoi successi non sono tuttavia in grado di compensare la frustrazione dell’umiliato Hamish, suo ex-fidanzato, il quale tesse una fitta rete atta a privarla della libertà tanto agognata, per riportarla a un ruolo più “consono” e sottomesso. Destabilizzata dalla situazione, Alice si imbatte nel Brucaliffo, seguendolo fino ad attraversare il titolare specchio, ponte intangibile che la conduce nuovamente nel regno delle sue fantasie.
Qui trova un Cappellaio Matto incupito e morente, logorato dall’ossessione che i suoi scomparsi parenti possano essere ancora in vita. La fanciulla, tentando l’impossibile, si imbarca in una missione contro il Tempo stesso (sia sotto forma di concetto astratto che di entità antropomorfa dalle fattezza di Sacha Baron Cohen), per modificare il passato e fare in modo che il suo più sincero amico possa ricongiungersi con i suoi cari e riconciliarsi con il severo padre.
Alice attraverso lo specchio, lo avrete intuito, ha più a che vedere con Pirati dei Caraibi e Doctor Who che con i testi vergati dal noto docente oxfordiano: i riferimenti ai suoi lavori, in effetti, si esauriscono quasi immediatamente per lasciare spazio a una trama avventurosa di scarsa originalità e dall’identità estremamente confusa. La protagonista ha abbandonato la sua maschera apatica e malaticcia per travestirsi da Elizabeth Swann, Sacha Baron Cohen fatica a non tornare sui passi dell’Adolfo Pirelli che interpretava in Sweeney Todd, la regina rossa si è immotivatamente circondata di un esercito di creature rubate all’immaginario di Arcimboldi, e Johnny Depp persiste con la sua ottusa strategia recitativa: nessun fattore, insomma, contribuisce a ritrovare un carattere che fino a oggi era nascosto tra le pieghe estetiche del gusto burtoniano.
In senso esteso la pellicola sottrae, più che aggiungere, all’universo prestabilito. La produzione avrebbe la possibilità di battere tracciati del tutto inediti, ma lo propone in forma poco interessante, arrivando a trattare molti dei personaggi con una banalità che avrebbe fatto storcere il naso anche ai creatori dei Muppets Babies. L’offesa peggiore, tuttavia, viene riservata al mondo stesso nel momento in cui viene rivelato che il fantastico Underland altro non è che un borghesissimo regno in cui gli abitanti si auspicano una vita conformista e normale, lasciando ben poco di onirico e sognante a quelle lande.
L’unico momento di possibile redenzione si ha a metà film, quando Alice si rifugia nel mondo reale con conseguenze potenzialmente entusiasmanti che, tuttavia, vengono disattese velocemente svaporando in un nulla di fatto. American McGee’s Alice, videogame a cui questa serie è ridicolmente debitrice, ha toccato in passato tutte le medesime corde, lasciando circolare messaggi incredibilmente forti, ma la Disney non ha avuto il coraggio di sposare la causa e ha proposto un espediente edulcorato in cui una eroina fintamente femminista si dilunga in vicende che non portano in nessun luogo.
Fotografia e sonoro, per quanto meno ispirati rispetto alla creatura di Burton, reggono adeguatamente le aspettative del pubblico, ma con una trama tanto vacillante neppure questi dettagli riescono a salvare dalla noia che regna suprema. Nel finale Alice si congeda dai suoi amici, convinta di non poterli mai più incrociare: non resta che sperare il suo giudizio si riveli corretto e che la saga intera venga archiviata prima di scadere ulteriormente.
– Walter Ferri –
“Alice attraverso lo specchio”: la recensione
Isola Illyon
- Computer grafica alla pari col predecessore;
- Alcune scene di Cohen sono in grado di strappare una risata;
- Nessuno scritto di Carroll è stato maltrattato;
- Viaggi nel tempo;
- Personaggi sviliti;
- Grandi opportunità ignorate;