La prima stagione di BoJack Horseman, nuova serie animata prodotta da Netflix, ha lasciato pubblico e critica divisi. Le vicende del cinico e antieroico cavallo antropomorfo, che sotto strati di alcolismo e depressione celerebbe – in fondo – un cuore d’oro, erano state tacciate da alcuni come un qualcosa di “già visto”. La serie, va detto, si era posta fin da subito un obiettivo ambizioso: il mondo del cartoon occidentale conosce ben poche narrazioni lunghe, mature e non auto conclusive (come potrebbero essere i Simpson o Family Guy). Per quanto mi riguarda, già nella prima stagione si intravedevano i germi di un’ambizione che esplode nella prima puntata della seconda, confermando BoJack Horseman come uno dei migliori prodotti televisivi dell’anno.
BoJack, ex-attore di una situation comedy anni ’80 che da diciotto anni vive nel ricordo di se stesso, oscilla tra un uno humour nero sempre apprezzabile e la classica parabola di lenta risalita che ogni anti-eroe sembra dover subire. Seppur intelligente e acuto, nella prima stagione l’umorismo dello show (che sa anche mettere, dove serve, un po’ di vomito rosa e giuste bassezze) non sembrava convincere del tutto, o quantomeno non pareva in grado di compensare quell’auto-referenzialità che criticava al mondo Hollywoodiano e poi finiva per subire a sua volta. La narrazione puntava evidentemente a qualcosa, ma pareva un obiettivo scontato – e, in fondo, tutto il resto finiva per essere una costante strizzata d’occhi a se stesso.
Nella prima serie il filo conduttore degli eventi è l’auto-biografia di BoJack, scritta da una giovane ghost writer che sembra costituire una possibile finestra sulla felicità per BoJack. Ma per l’amore è ancora presto: a margine dell’inevitabile delusione, il tutto conduce BoJack ad ottenere – per la prima volta dopo tempo immemorabile – qualcosa che desidera realmente: interpretare Secretariat, maratoneta morto suicida e suo eroe personale, in un film. Come si può intuire, le riprese del lungometraggio fungeranno da filo conduttore della stagione al pari della scrittura del libro.
Nella puntata di apertura della seconda stagione non mancano gli occasionali sguardi nelle vite degli altri animali che orbitano attorno al protagonista, tra la ilare semplicità di Todd e le basi per il futuro di Princess Carolyn. Le vicende di Diane sembrano prendere una piega autonoma, offrendo una possibilità di identificazione a quella fetta di pubblico maturo e appetibile fino ad ora lasciata fuori (non i cinici terminali che si identificano in BoJack, tipo me, ma i trentenni confusi sul proprio futuro, tipo tutti i trentenni).
Il focus, comunque, è su BoJack e sulla sua parabola di rinascita, che accelera fortemente: audio motivazionali narrati da George Takei, un divano nuovo, la ferma convinzione che recitare nel ruolo di Secretariat sia la sua occasione per cambiare davvero. È chiaro fin da subito che il punto d’arrivo sarà la ricaduta nel “good old, same old”: qualcuno lo ricorderà, che i cavalli sono pur sempre persone orribili.
E sebbene la ricaduta arrivi, il come rende le premesse della seconda stagione fenomenali. Sebbene non manchi di far ridere, la puntata finisce per essere un gigantesco pugno nello stomaco: uno sguardo al passato di BoJack diventa il trampolino per un’introspezione che il protagonista porta avanti di pari passo con lo spettatore, con progressivo sconforto ed autocoscienza. L’introduzione del personaggio materno risulta tutt’altro che scontata, mostrando una donna crudele e cieca alle conseguenze delle proprie azioni, presente ed ugualmente deleteria nell’infanzia, nella giovinezza e nell’età adulta di BoJack. Il peso avuto nella vita dell’attore è suggerito in poche violentissime battute, oltre che in alcuni non detti (primo fra tutti, “non è Ibsen”, commento su Horsin’ Around pronunciato da BoJack nell’episodio pilota ed anticipato anni prima dalla madre).
Questo, e la capacità di guardare oltre un’estetica già esauritasi (quella del vecchio cinico brontolone ma buono), fondono la riflessione sull’identità con quella sull’approccio alla vita, portando un BoJack incapace di recitare a incredibili vette emotive, nei panni di Secretariat, solo dopo essersi confrontato con l’incapacità di far pace con se stesso e la profondità della propria depressione. L’ironia è al colmo, lo spettatore è a terra, e per la prima volta si prova sincera e violenta partecipazione per un cavallo più uomo di tanti.
Questa è solo la recensione del pilota, ma mi sia concesso dirlo: andando avanti, non si resta delusi. Un avvertimento, però: se sperate di tornare a casa, dopo una lunga giornata di calci nell’uretra, e godervi mezz’ora di innocuo divertimento, cambiate show. BoJack offre altro.
– Luca Pappalardo –
BoJack Horseman 2×01: la recensione
Luca Pappalardo
- La rinnovata carica introspettiva;
- La costanza dello humour;
- Due secondi di Vincent Adultman;
- Diane e la sua lamentosa inconcludenza;