Il fantasy, si sa, è un genere antico, erede di una tradizione, l’epica, che risale agli albori della civiltà e precede l’invenzione della stessa parola scritta. Ogni autore di genere degno di tale nome non può esimersi dall’onorare tale ascendenza, nel solco di una prassi determinata dall’illustre capostipite del fantasy occidentale, il docente di lingua e letteratura inglesi John Tolkien, onere che nel concreto si traduce in un’intima conoscenza con la dimensione del mito, della leggenda, della fiaba: di quella matrice archetipale che, in ultima istanza, si colloca alla base di ogni racconto fantasy mai scritto.
Può solamente rincuorare e far piacere, quindi, prendere in mano un’opera come “Hoenir il Druido – Il Libro Proibito” (GDS edizioni) e constatare che l’autore, Daniele Bello, possiede una certa dimestichezza con l’argomento in questione, al punto da dedicarvi un’intera collana libraria (“Racconti Senza Tempo”): che tale ispirazione sia sufficiente a illuminarne la scrittura? Vediamo.
“Il Libro Proibito”, secondo capitolo di una trilogia che ha già visto pubblicato “La Profezia” è una storia piuttosto tradizionale e tutt’altro che ingarbugliata: la narrazione si struttura attorno a due archi narrativi principali, quello dell’eponimo Hoenir, giovane druido intento a percorrere il cammino che lo porterà – si spera – a salvare il mondo dalle potenze infere, e quello di Lord Verminaard (omaggio a M. Weiss e T. Hickman?), faccendiere e politicante dalla astuzia tutto sommato limitata, ma dalla smodata fame di potere. Entrambi procedono su binari praticamente paralleli, con un paio di intersezioni principali al di là della semplice menzione, e entrambi risentono di criticità similari.
L’opera ha, nel complesso, uno sviluppo lineare: sono scarsi i colpi di scena, e ancor meno le emozioni suscitate nel lettore. Riguardo alle peripezie di Hoenir e compagni, è difficile non leggervi una certa influenza dell’amore dichiarato dell’autore per i giochi di ruolo: il party si muove da un incontro-scontro all’altro all’inseguimento del MacGuffin di turno, con interazioni tra i personaggi lungo la strada che occasionalmente scivolano nel legnoso e grossolanamente irrealistico. Più interessanti, a livello narrativo, sono invece le sezioni dedicate a Verminaard e ambientate nella capitale del macro-impero fantasy di turno (questa volta ispirato a quello Bizantino): qui troviamo personaggi più sfaccettati e originali, come il demente imperatore Demetrio, il mefistofelico diavolaccio Isabò e un misterioso serial killer/cosplayer di Batman noto alle folle come Vendicatore.
Risulta difficile togliersi di dosso la sensazione che gli aspetti più prosaici del testo (a partire dalla strutturazione del mondo, la cui geografia e toponomastica rende legittimo assumere trattarsi di una Terra futura/alternativa) non siano altro che una mera impalcatura sulla quale incasellare un’antologia di racconti tratti dalle fonti più disparate. Tema ricorrente è, infatti, quello della narrazione, orale o scritta indifferentemente: negli interludi tra i capitoli, o anche per bocca dei protagonisti e co-protagonisti della vicenda, si incappa a più riprese in brani riportati più o meno alla lettera da una bibliografia che abbraccia secoli di storia, dal “Beowulf” alle “Mille e una notte”. Sono questi ultimi a impreziosire l’opera, e costituiscono invero una testimonianza più che adeguata della passione tangibile per il genere che l’autore ha riversato nel testo, anche quando le doti scrittorie forse gli venivano meno.
Sul piano stilistico la prosa è ricercata, puntuale e di registro elevato, arricchita da alcune mirate Citazioni (con la maiuscola) che non risparmiano neppure il papà della lingua italiana: “fatti non foste a viver come bruti…” ammonisce uno dei personaggi verso metà del libro, e in effetti di brutalità se ne vede relativamente poca. Ponendosi controcorrente rispetto alla scuola del grit-fantasy, il Bello non lesina certo su squartamenti e altri inconvenienti comprensibilmente derivanti da incontri ravvicinati del quarto (ma anche quinto) tipo con demoni, mostri, e orrori vari, ma in queste occasioni (come pure nei combattimenti, che non abbondano, ma neppure sono del tutto assenti) il tono è asettico, a tratti fiabesco.
Se in generale le sezioni d’azione risultano ovattate, i momenti di descrizione e introspezione sono invece esplorati e tratteggiati in maniera particolareggiata. Il senso dell’ignoto, quell’atmosfera a un tempo ultraterrena e intimistica che avvolge gli avventurieri nell’avviare i primi passi verso le terre selvagge: sono queste le emozioni alle quali l’autore fa più spesso riferimento, le stesse che ci hanno preso tutti (siate onesti) nel sentire Thorin & co intonare il proprio canto nel primo capitolo de “Lo Hobbit” di Peter Jackson, come anche quella trepidazione e aspettativa che afferra un gruppo di gioco all’inizio di una nuova campagna.
Ne consegue, dunque, un fantasy classico (anacronistico?) e romantico (in senso letterario) che probabilmente risulterà più gradito ai fan dello stile di tolkeniano originale piuttosto che ai seguaci della parrocchia di George Martin. Un libro che, pur con tutte le sue innegabili criticità, si offre a una lettura rapida e poco impegnativa, anche in virtù della sua lunghezza ridotta, di poco superiore alle duecento pagine, che vi intratterrà per un paio di serate di lettura piacevoli e leggere, senza obbligarvi a elucubrare più di tanto su inghippi magici, intrighi politici, o complessi dilemmi filosofico-metafisici.
– Federico Brajda –
Recensione “Hoenir il Druido – Il libro proibito”
Federico Brajda
- Lettura rapida e gradevole;
- Atmosfere coinvolgenti;
- Antologia di racconti veramente d'eccezione;
- Trama semplice e, a tratti, scontata;
- Ambientazione tutt'altro che originale;
- Dialoghi surreali e poco credibili;