Persino noi (escapisti e irriducibili amanti dei mondi immaginari) sappiamo che gli anni ’70 furono un periodo storico intenso e per certi versi terribile, per l’Italia. Fra gli orrori partoriti in quel decennio ne voglio ricordare tre, che per amor d’iperbole eleggerò hic et nunc i più agghiaccianti:
- La strage di Piazza Fontana;
- L’omicidio di Pasolini;
- I Campi Hobbit.
Nel 1967 in Italia venne pubblicato “Il Signore degli Anelli”: non se lo cagò nessuno. Ignorato dall’“alta cultura”, se ne appropriarono una manciata di destrorsi che arrivarono all’assurdo di creare campi giovanili dal nome già ricordato. Erano i sintomi di un vero e proprio sequestro subìto qui da noi dal Professore, chiuso nel bagagliaio culturale di chi voleva dargli un’impronta politica.
Di un Tolkien “di destra” o di “sinistra” ve ne abbiamo già parlato qui. Oggi, cantando un inno ai massimi sistemi, affrontiamo un problema più generale: la diatriba (tutta italiana, e a sto giro scordiamoci la “I” maiuscola) sull’appartenenza politica di fantasy e fantascienza, il primo tradizionalmente considerato un genere di destra e il secondo, all’opposto, di sinistra.
Posso sentire già ora le vocine dei professori della tastiera: “tsk, ma son polemiche vecchie”, “ma questa è come la storia di D&D e Satana”, “ma perché invece non parli del ruolo di reddit nello sviluppo del fandom gay-friendly su DoctorWho?”, eccetera. Prima cosa, scrivo un po’ quello che mi pare, e che la giusta ghigliottina dell’editore non mozza (Luca, lo sai che ti voglio bene! <3 ndEditor); seconda cosa, credeteci o meno, è ancora pieno di scemi convinti che il valore di certa letteratura si misuri con il colino della politica, anche in virtù dell’assunto (sviluppatosi in quegli anni) secondo cui la letteratura vale solo se impegnata socialmente (Pier Paolo, Pier Paolo…).
A costo di essere assertivo, anticipo fin da subito le mie conclusioni: basta con queste stronzate elucubrazioni, ridateci la fantasia. Sia chiaro, comunque, che il tema è complesso e io non sono né Gianfranco De Turris né Wu Ming 4: in questo limitato spazio posso tuttalpiù fare qualche considerazione generale.
È sicuro che esista una profonda diversità fra fantasy e fantascienza. Esprimendomi per generalizzazioni consapevolmente non esaustive, uno guarda al passato, uno al futuro. Il primo ricostruisce una realtà immaginaria in qualche modo legata al concetto dell’“arcadia”, nella quale l’arretratezza tecnologica si accompagna ad una tendenziale genuinità dei valori e semplicità della vita (il primo che dice “Eh ma George Martin…” verrà fucilato: generalizzazioni-non-esaustive). Il secondo immagina, a partire da premesse plausibili, i futuri sviluppi della realtà odierna, sviluppi spesso legati a doppio filo a mutamenti di tipo tecnico-scientifico.
Diventa facile, in questa chiave, sostenere che il fantasy sia un genere “reazionario”, laddove la fantascienza – nel criticare (“Fahrenheit 911“, 1984) più che esaltare (“ISdA” e qualunque altro classico del genere dove LO RE è buono e giusto) le manifestazioni autoritarie del potere – sia più un genere di “sinistra”. E mentre il primo non sarebbe altro che un mezzo di fuga dalla realtà, in quanto tale incapace di fornire strumenti per interpretarla, quantomeno il secondo offrirebbe, nell’immaginare il futuro, una chiave di lettura del presente.
Da ciò se ne dedurrebbe, nella logica della “politicizzazione” e “funzione sociale” della letteratura, che il fantasy sia una merdata da fascisti alienati che rivogliono la monarchia, e che la fantascienza, bene che vada, sia un fight da powwa annacquato in fantasticherie, che va bene leggerlo però poi dopo lotta sociale o non vali un cazzo.
Ecco, questo è il genere di stronzata elucubrazione intellettualoide che mi permetto di contestare. Il che non significa dire che non esistono tracce “politiche” nelle opere di genere. Gli autori sono esseri umani, ciascuno con un vissuto, una formazione e spesso anche delle convinzioni politiche. È intuibile che esperienza e forma mentis dell’autore filtrino in qualche modo nella sua opera, in modo implicito o esplicitate dall’autore. Lovecraft era uno xenofobo, ma della serie che in altri tempi e altri luoghi avrebbe finito per sparare a un Nigeriano ai mercatini (e la cosa si intuisce dai suoi lavori).
E quindi? Quindi niente, perché tutto questo non ci dice nulla sul presunto schieramento politico dei generi. Generi e opere sono cose diverse. Anche a voler individuare nelle singole opere una traccia politica, diverse prospettive portano a diverse conclusioni, e rigirando la frittata si può arrivare anche a trasformare il fantasy in genere di sinistra (quella sinistra antimodernista e statalista) e la fantascienza in un genere di destra (futurismo e fascismo vi suona?). Tutti concetti, questi, che sono peraltro legati a schemi di pensiero e categorie politiche nostrane, cose che non hanno niente a che fare con generi letterari a vocazione universale.
Perdendo la testa dietro a stupide classificazioni si finisce per pervertire i contenuti con le lenti attraverso le quali li si osserva, diventando ciechi al reale valore letterario che hanno. Nei limiti del gusto personale, esistono bei libri e brutti libri. Non smetterò di leggere Lovecraft perché so che segretamente avrebbe voluto eradicare gli allogeni; ma potrei smettere di leggere un autore che mi rifili propaganda filonazista in chiave narrativa, perché li troverei dei prodotti brutti e disonesti.
Insomma: fantasy, fantascienza e politica sono mondi che possono parlarsi – certo che possono. Immaginare una realtà meno burocratizzata e industrializzata può ricordarci che forse spendiamo troppo tempo in fila alle Poste e tiriamo giù troppi alberi, per dire che il mondo sia un posto sano; e ugualmente è bene provare a immaginare un futuro in cui, privi di qualunque diritto, potremmo scoprirci schiavi convinti d’essere liberi. Posto ciò, queste potenzialità non sono le uniche cose che rendono “meritevoli” le opere di genere, né è il caso di giudicare un lavoro a partire dal filone letterario in cui si inscrive, se lo si fa in virtù di certi preconcetti.
E a partire dalle convinzioni del suo autore? Eh, il blaterio pro-Lovecraftiano che ho rigurgitato fino a qui suggerirebbe una certa risposta. Detto questo, dopo aver scoperto che agli Hugo Awards sono candidati un paio di soggetti araldi di idee antifemministe e nemici dichiarati dei diritti delle coppie omosessuali (“Rabid Puppies”)… il boccone di dirvi “sticazzi, se scrivono bene devono vincere comunque!” è troppo duro da mandar giù.
Schivando il pericolosissimo ginepraio che vi ho fatto intravedere, concludo sul tema centrale: parlare di “destra” e “sinistra” quali presupposti culturali di determinati generi letterari è una perdita di tempo, un teatrino all’italiana figlio di contingenze storiche ormai superate che sarebbe il caso di lasciarsi alle spalle. Non serve a niente, se non a perdere di vista la vocazione universale che ha la letteratura fantastica, la quale, al di là del senso di inadeguatezza che vorrebbe fargli scontare una certa critica, non ha bisogno di dimostrare un bel niente. Anche a volerla chiamare semplicemente letteratura d’evasione, ritrova in sé il proprio valore. Chiudo su questo, facendo elaborare il concetto a Neil Gaiman, che l’ha detto meglio di quanto potrei fare io in occasione della sua lectio magistralis del 2013 presso la Reading Agency:
«Se sei intrappolato in una situazione impossibile, in un posto sgradevole, e qualcuno ti offre una via di fuga temporanea, perché non dovresti prenderla? I libri fanno questo: aprono una porta, mostrano la luce fuori. E più importante ancora, durante la fuga i libri possono farti conoscere il mondo e la tua stessa condizione, ti danno armi, ti danno un’armatura, cose che puoi portarti dietro quando devi tornare in prigione. Le abilità e la conoscenza sono strumenti che puoi usare per fuggire davvero. Come diceva Tolkien, le uniche persone che si arrabbiano per una fuga sono i carcerieri. »
– Luca Pappalardo –