Come il maestro del fantasy Brandon Sanderson spiega, certe persone sono mentalmente dirette: non necessariamente stupide, o poco interessanti, ma con un approccio monodirezionale alle situazioni, poco inclini alle elucubrazioni. Medesimo principio vale, del resto, per l’editoria: certi autori (soprattutto contemporanei) amano trame contorte come la tana di Shelob e più oscure del cappuccio di un Nazgûl. Altri, non certo i peggiori, credono nelle storie tradizionali, dalla struttura classica, immediata, e di provata efficacia: tutti sappiamo che alla fine Conan ammazzerà il mostro o stregone a colpi di spadone e farà innamorare perdutamente di sé qualche bella ragazza poco vestita, e nessuno se ne lamenta, anzi, è proprio quello che pretendiamo di leggere prendendo in mano un racconto di Conan il Barbaro.
Ora, chiaramente, John Gwynne, autore britannico da poco giunto alla seconda pubblicazione, è da annoverare tra gli appassionati e sostenitori del fantasy vecchio stile, dove tutto è bianco e nero, e il cammino dell’eroe, per quanto ingombro di pericoli e nemici, si annuncia mirato come il volo di una freccia. Semplice, classico, diretto: questi sono i tre aggettivi con cui si potrebbe riassumere il secondo capitolo della saga della Guerra degli Dei, “Valour – l’Astro Splendente”, edito in Italia da Fanucci, romanzo epic fantasy narrante le travagliate vicende delle Terre dell’Esilio, sconvolte da una piccola guerra mondiale e teatro prossimo venturo di un’apocalittica lotta senza quartiere tra il Bene e il Male.
Con le sue (quasi) ottocento pagine di lunghezza, “Valour” è un libro impegnativo (in termini temporali), ma non eccessivamente ponderoso, né per gli habitué del genere, né per i lettori più occasionali. Il testo è essenziale, privo di filler, ripetizioni, e descrizioni compulsive di ogni minuscolo particolare. Non aspettatevi le divagazioni introspettive da Ruota del Tempo, i pantagruelici banchetti de Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco, o anche solo la bruta suggestività delle ambientazioni alla Abercrombie: viaggi, dialoghi, duelli, battaglie, tutto scorre fluidamente, con descrizioni e informazioni centellinate al minimo indispensabile. Si fa molto più affidamento sulla fantasia del lettore che sulla capacità rappresentativa dello scrittore, sempre comunque piuttosto puntuale, in particolar modo relativamente alla sfera bellica.
La trama ricomincia da dove era rimasta in sospeso al termine del primo capitolo della saga, “Malice”. La guerra infuria per le Terre dell’Esilio. A ovest, le macchinazioni della regina Rhin rovinano la vita a un sacco di brava gente: Corban e i suoi amici sono in fuga, braccati da nemici e traditori, ma hanno utili alleati in Camlin, l’arciere della compagnia, ex-fuorilegge avviato alla redenzione grazie al potere dell’amicizia, e Gar, mistico guerriero dell’ordine dei Jehar e guardia del corpo di Corban, ragazzo nel quale vede un messia, il Seren Disglair, l’Astro Splendente. A loro contrapposta vi è l’epopea di Nathair, Re di Tenebral, intenzionato a conquistare tutto e tutti nel nome della propria convinzione (alimentata dal suo infido consigliere Calidus) di essere l’Astro Splendente, unica possibilità del genere umano di fronte all’invasione demoniaca prossima ventura dei servi di Asroth, Dio del Male. Tale vicenda ci viene narrata soprattutto attraverso gli occhi di Veradis, sua prima-spada e più fedele servitore, un uomo buono costretto a scelte difficili dalla convinzione (non sua) che il fine giustifichi i mezzi. Attorno a loro si intrecciano le vicende di svariati comprimari: Maquin, veterano delle forze speciali ammazza-giganti del Regno di Isiltir, disperso nelle terre selvagge e assetato di vendetta; Cynewin, sorella di Corban e maniaca del lancio di coltelli; il filibustiere alcolizzato Lykos, la bella Coralen dai capelli fulvi, Uthas il gigante, Evnis il traditore, e altri ancora, ciascuno destinato a giocare un ruolo, per quanto marginale, nella Guerra degli Dèi che presto sconvolgerà il creato.
Gwynne mantiene lo stile già adottato nel primo capitolo, che vede l’utilizzo di un numero elevato di co-protagonisti e punti di vista differenti. Ciò contribuisce felicemente a spezzare la monotonia di un’azione che altrimenti spesso si ridurrebbe allo “scappiamo dal punto A al punto B”, e a creare un mosaico coerente (ma non particolarmente variegato) della situazione globale, per quanto in certi momenti la trama diventi disarmonica, in particolare da un punto di vista cronologico. È chiaro che con una storia che abbraccia decine di personaggi, le cui disavventure spesso si verificano a centinaia di chilometri di distanza l’una dall’altra, non è possibile aspettarsi un ordine preciso di tutti i capitoli (ciascuno dei quali può abbracciare temporalmente una mezz’ora come un arco di diverse settimane): d’altro canto, in un paio di occasioni ci si trova di fronte a traslazioni spazio-temporali decisamente fastidiose e disorientanti. Capita ad esempio che tra due capitoli di uno stesso personaggio (separati, nella storia, da un intervallo di pochi secondi) si inseriscano due o tre sequenze dedicate ad altri, che possono durare (sempre nella storia) ore o addirittura giorni. L’impressione è, allora, che vi sia una “dipendenza da cliffhanger”, dove la fluidità narrativa risulti sacrificata per il bisogno di terminare un capitolo con un colpo di scena che, va detto, fin troppo spesso risulta assai poco incisivo. Diciamo che Gwynne non è particolarmente subdolo nel disseminare accenni nella trama riguardo a eventi successivi.
I personaggi, nel complesso, non sono chissà quanto originali, né caratterizzati o tantomeno interessanti. Corban, per dirne uno, sembra una brutta copia con meno poteri magici di Rand al’Thor (il ragazzo semplice che tutti credono essere il salvatore del mondo, e che fatica ad accettare il proprio destino), senza però un briciolo della tragica complessità morale del protagonista della Ruota del Tempo. Vi sono anche delle eccezioni degne di nota nella monotonia generale del cast, e in particolare Veradis, prima-spada di Nathair: un uomo buono e onorevole, la cui profonda dedizione lo costringe a sottomettersi a una filosofia alla “il fine giustifica i mezzi”. Escluse queste, però, è difficile provare un benché minimo coinvolgimento emotivo nei confronti dei protagonisti.
In effetti, più che i personaggi, a sospingere la lettura sono la trama e l’ambientazione: Gwynne non pesca a piene mani dalla mitologia britannica, ci si crogiola letteralmente dentro come un nano farebbe nel tesoro di un drago. Tra giganti e wyrm, draig e corvi parlanti, la lingua, la cultura, le atmosfere, delle Terre dell’Esilio recano tutte il marchio indelebile dell’uggiosa Albione cui tanto è debitrice la letteratura fantasy nel suo insieme. L’unica stonatura, in questo caso, è costituita dalla metafisica interna all’opera. Qui l’autore non si addentra nel folklore celtico, né dà dimostrazione di particolare originalità, ma ricopia (abbastanza letteralmente) la genesi delle religioni abramitiche: c’è Elyon, dio Creatore del genere umano, e Asroth, l’angelo caduto le cui schiere di demoni bramano di portare l’apocalisse, ai quali si oppongo i Ben-Elim, gli angeli del Signore… questa eccessiva semplificazione (per non dire pigrizia) rispetto a uno degli elementi fondanti della vicenda sembra essere fuori luogo, punto debole dell’intero impianto narrativo.
Voi che ne pensate? Siete d’accordo?
– Federico Brajda –
Recensione libri – ‘Valour – L’Astro Splendente’
Federico Brajda
- Ambientazione curata e affascinante;
- Stile di scrittura scorrevole;
- Non deluderà gli amanti dei classici;
- Personaggi poco incisivi;
- A tratti confusionario;
- Poco originale;