Il 15 luglio 2016 sulla piattaforma Netflix veniva pubblicata la nuova serie dei fratelli Matt e Ross Duffer (Vessel, Hidden, Wayward Pines), Stranger Things: dichiarata immediatamente un cult, e ispirata alle pellicole anni ’80, lo show ha subito scatenato il pubblico, che si è lanciato alla ‘caccia alla citazione’. Eh sì, perché qui di citazioni ce ne sono tante.
Disclaimer: in molti hanno tentato di esaminare frame per frame ogni puntata, passandole al setaccio. Ma noi di Isola Illyon vogliamo fare di più: scenderemo in profondità fino ad arrivare, addirittura, alla favola di Cappuccetto Rosso, in questo articolo ad alta gradazione di spoiler e psicologia del racconto. Se non avete visto la serie, dunque, vi consigliamo di farlo prima di proseguire nella lettura; se invece avete divorato tutte le puntate, seguiteci subito nel metaforico mondo Sottosopra.
Stranger Things non è una semplice serie TV, così come non è un semplice contenitore di riferimenti ad altre opere. Sì, questi ci sono, e sono evidenti: i fratelli Duffer hanno pescato a piene mani da Alien di Ridley Scott (l’architettura del mondo Sottosopra e l’uovo dischiuso nell’ultima puntata) e La Cosa di John Carpenter per dare un aspetto minaccioso al mostro; si sono immersi in Poltergeist, The Fog e Videodrome per studiare le tecniche che hanno reso i film horror anni ’80 i più belli finora realizzati; hanno rivoltato come un calzino Stephen King (i riferimenti al film L’Acchiappasogni del 2003 sono palesi) e citato costantemente Star Wars (indimenticabili il pupazzo di Yoda e i riferimenti a Lando Calrissian traditore). La colonna sonora, poi, è stata scritta da due dei membri del gruppo Survive, Kyle e Dixon (The Guest). Dunque, come mai questo mostro di Frankenstein, piuttosto che essere stroncato come copiatura dell’opera omnia del cinema mondiale, ha riscosso un così grande successo, tanto da spingere i fan a chiedere con forza una seconda stagione?
Innanzitutto la tecnica utilizzata, pur essendo tutto registrato su digitale, è interamente anni ’80, dai visual effects della sigla, ispirata a Greenberg (Alien, I Goonies) ai caratteri sfruttati e interamente copiati dai libri di King. Ultimo tocco di classe è stato l’effetto vecchia pellicola, dato in fase di masterizzazione. Ma c’è qualcosa in più, qualcosa di psicologico… Stranger Things, infatti, altro non è se non un viaggio, un rito di passaggio come descritto metaforicamente nei classici greci. Dentro troviamo il Bosco, luogo tenebroso ma naturale nel quale è immerso un uomo inconsapevole del proprio destino e delle proprie potenzialità, ma anche il mostro privo di sangue che lo percepisce perché lo brama e lo cerca, divorando carne umana o animale. C’è un chiaro riferimento all’ingresso nel regno di Ade, il mondo dei morti, attraverso la corteccia (sarebbe meglio dire le radici) dell’albero, un albero che al contempo è della vita e della morte, fungendo da ingresso e uscita dal mondo Sottosopra. Infine c’è il sacrificio di una parte di sé, necessario per crescere. Così come la nonna, doppleganger ed elemento malato di Cappuccetto Rosso, deve morire perché la fiaba abbia un finale felice (originariamente anche Cappuccetto Rosso veniva divorata dal lupo – lo so: è difficile da “digerire” e sto infrangendo i vostri sogni di bambini, ma la versione dei fratelli Grimm, quella a lieto fine, è solo successiva!), così Undici deve sacrificarsi per sigillare il mondo Sottosopra e permettere a Mike di avviarsi verso l’adolescenza. Riferimenti di questo genere sono presenti in ogni episodio e, un po’ come avviene per Frodo ne Il Signore degli Anelli, anche qui la trama parla di un rito di passaggio a una consapevolezza maggiore.
Stranger Things è la perfetta applicazione dello Schema di Propp, il linguista e antropologo russo scomparso nel 1970. Nei suo studi, incentrati più sull’azione del personaggio che sulle caratteristiche dello stesso, propose 31 funzioni dalla sequenza inalterabile che comporrebbero la cosiddetta ‘morfologia di una fiaba’, la spina dorsale di un racconto che abbia finalità pedagogiche. In Stranger Things la sequenza salta subito all’occhio: c’è un equilibrio iniziale espresso con la vita alquanto monocorde dei protagonisti coinvolti più dalla loro passione per il mondo fantastico di Dungeons & Dragons che per la realtà nella quale vengono vessati dai classici bulletti della scuola. L’equilibrio viene spezzato quando uno di loro scompare. Seguono le peripezie degli ‘eroi’ e le azioni che le caratterizzano (innamoramento di Mike per Undi, l’antagonista che muove le fila dietro le quinte, la presa di coscienza della scomparsa dell’amico). Infine la conclusione della vicenda con l’equilibrio (un nuovo equilibrio!) che viene ristabilito.
In Stranger Things pare che lo schema di Propp abbia funzionato perfettamente: ognuna delle 31 funzioni è stata resa pescando ‘pezzi’ della storia da altri racconti o elementi tipici dell’epoca (ad esempio, Dungeons & Dragons) ed è proprio questa sequenza ben scandita ad aver portato fortuna alla serie dei fratelli Duffer.
Ora è stata annunciata una seconda stagione: lo schema verrà nuovamente seguito? A questo punto, dovremmo tutti augurarcelo.
– Fabrizio Palmieri –