Abbiamo il coraggio di dirlo: anche se i grecisti invocheranno un supplizio prometeico, i poemi epici (e pure un po’ di filosofia) dell’antichità sono fantasy.
Come negarlo? Nell’epica compaiono luoghi mai visti, strani, misteriosi, estranei e stranieri, pericolosi: l’Odissea di Omero è sicuramente l’esempio più lampante. Del resto se ad oggi gli unici che si ritrovano ad ascoltare le ritmiche nenie sonnolente dell’epica sono brufolosi adolescenti liceali, qualche millennio fa il pubblico era costituito da guerrieri brutaloni e avvinazzati dalle spiccate abitudini pederaste: quei racconti erano l’equivalente del film che scorre in sottofondo!
Certo l’Odissea è conosciuta, così come i suoi luoghi fantastici, ma un altro luogo della letteratura ha aperto la via alla millenaria ricerca di civiltà perdute (siano esse città dai tetti d’oro sepolte nelle foreste equatoriali, o interi continenti inabissatisi dell’Oceano): Atlantide.
(E a questo punto la logica stringente del brainstorming dovrebbe costringermi ad indossare un costume da ninja fashion e ad intervistare casalinghe frustrate e fan di Cinquanta sfumature di grigio che sostengono di essere state rapite ripetutamente da alieni estremamente galanti.)
Lasciando stare tutto l’esotico contorno ricamato nei secoli, qui si parla dell’Atlantide di Platone, la “vera” Atlantide (quella dei dialoghi Timeo e Crizia), che non era altro se non una potenza navale, peraltro corrotta e per questo destinata alla decadenza. Nel contesto della filosofia platonica, così attenta alla costruzione di un mondo perfetto (agghiacciante, ma perfetto), la corrotta Atlantide è in contrasto con la moderata ed equilibrata Atene. Insomma Atlantide come isola, come terra “reale”, ma scomparsa a seguito di un cataclisma (voluto o meno da Poseidone… su quello non si può troppo sindacare…).
Atlantide è la più famosa, la più chiacchierata (e la più lucrosa) terra scomparsa della storia. E questo almeno dal Rinascimento. Ebbene non è la sola! Pirati! Navighiamo verso l’occidente d’oro! Non troveremo però Tir na nOg, immersa in una perenne estate, in una perenne età dell’oro, né il Purgatorio di Dante. Bensì un’isola reale, o realistica almeno, destinata alla stessa parabola di declino e distruzione di Atlantide.
Ma le somiglianze finiscono qui, perché la leggenda dell’isola di Ys, collocabile al largo delle coste bretoni, è una leggenda che è profondamente cristianizzata, al contrario delle opere dei grandi (ma non lovecraftiani) antichi, che non subirono sovrascritture di sorta (reinterpretazioni sì, però!). Ys è un’isola-città protetta dalla furia del mare da un ingegnoso sistema di chiuse, e governata dal benevolo e pio re Gradlon. Ma la sua giovane e bella figlia, Dahut, si innamora di uno straniero, che si rivela poi essere il diavolo in persona. L’infido demonio chiede alla giovane, come pegno d’amore, di spalancare le dighe che garantiscono la sopravvivenza della città. La giovane, folle d’amore, lo esaudisce. Il mare invade così la città e, mentre il devoto re Gradlon cerca disperatamente di strappare la figlia ai flutti, gli appare un angelo di Dio che gli intima di abbandonare Dahut, ormai dannata (e meno male che è lo stesso Dio di Abramo…): Dahut diviene quindi la sirena Marie Morgane (o meglio entra a far parte del mondo sottomarino, dove non è affatto l’unica sirena presente), e infesta per sempre quel mare. Il pio e devoto Gradlon, salvatosi, approda sulle coste bretoni, dove fonda Quimper (Kemper in lingua bretone) oppure, secondo un’altra tradizione, prosegue verso l’interno e fonda, lui che veniva da Ys, par Ys, Parigi (e naturalmente ignoreremo il fatto che in quella località fosse stanziata la popolazione dei Parisii).
È stato però sostenuto che, più che una leggenda cristianizzata, quella di Ys sia in realtà un falso del calibro del Viaggio di Ossian, confezionato ad arte da Mcpherson. Sia come sia, la leggenda di Ys, messa in musica dal più importante (ad oggi e tutt’ora vivente) musicista bretone, Alan Stivell (cercate il suo brano “Ys” su YouTube), ha contribuito a ricostruire quella che era l’obliata identità “nazionale” bretone, anche attraverso la rinascita ed alla riscoperta della scampanellante (per le sue corde metalliche) arpa bardica.
Una leggenda e una melodia che hanno avuto un certo seguito anche nella nostrana penisola italiana (e non solo nella lontana penisola bretone): il più importante allievo di Stivell, Vincenzo Zitello, ha ripreso e reinterpretato, quasi come fosse jazz, il componimento del maestro. E sempre italiano è anche il musical della leggenda d’Ys, messo in scena dalla Accademia di danze irlandesi Gens d’Ys (guarda caso). Un’ultima curiosità per chi ama la musica classica: anche Claude Debussy si ispirò alla leggenda di Ys per comporre la sua opera La cathédrale engloutie.
E allora navigate ad Occidente, sospinti dai Quaranta Ruggenti dei browsers, perché oltre l’orizzonte, e oltre il prossimo link, c’è sempre una terra sconosciuta, scomparsa o dimenticata da scoprire, e ci saranno fiumi di rum, donne belle, alberi carichi di frutti, e cannibali, e mostri giganteschi.
– Chiara Boem –