Gli anni ’80 sono stati per molti versi strampalati. Gli Stati Uniti d’America erano nel pieno di un nuovo boom economico, e gli animi delle società occidentali ne erano influenzati, auspicandosi un futuro brillante pieno di innovazioni tecnologiche, un rinnovato periodo di opulenza in cui gli sgargianti vestiti sintetici si sarebbero accompagnati a rivoluzionarie macchine volanti. Volendo riassumere il decennio, basti sapere che nel 1982 veniva inaugurato il disneyano EPCOT Center in Florida, un parco di divertimenti che puntava a essere un monumento atto a “instillare un nuovo senso di fiducia e orgoglio nella capacità umana di plasmare il mondo”, ma che oggi viene patito dai bambini visitatori al pari di una punizione sadica. Sul piano del cinema di massa, questa fede ai limiti del puerile si è tradotta con il grande successo dei film fantascientifici che, seguendo un filone iniziato al finire dei ’70, hanno dominato il mercato dei blockbuster. Lo spazio, non più legato alla visione belligerante della guerra fredda, era divenuto una nuova frontiera da sondare e immaginare, un nuovo percorso che spesso, contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, finiva con l’analizzare le profondità della natura umana. La strepitosa annata del 1982, nello specifico, ci ha garantito pietre miliari del genere; neppure un paio di settimane dopo al debutto dello spilberghiano E.T., ecco che John Carpenter stravolge l’immagine buonista del visitatore alieno, proiettando sul grande schermo uno dei suoi più grandi capolavori: La Cosa.
Antartico, la stazione americana Outpost #31 riceve l’inattesa visita di un elicottero norvegese proveniente da un vicino insediamento. Pilota e passeggero sono dediti a un’efferata caccia, scoppiando decine di colpi pur di abbattere uno spaventato husky; complice la barriera linguistica, la situazione degenera velocemente e i due europei periscono in maniera violenta senza riuscire a giustificare il loro comportamento. Perplessa per l’accaduto, l’equipe statunitense decide di visitare il loro accampamento per verificare lo stato di salute degli altri occupanti, ma una volta giunta sul posto vengono rinvenuti solamente ruderi infranti da combattimenti e follia. Muovendosi su un sentiero di sangue, evitando accuratamente le asce conficcate nelle pareti, il gruppo si imbatte nei resti carbonizzati di una creatura mostruosa, decidendo coraggiosamente di recuperarne il corpo per studiarlo con calma in un secondo momento. Una volta tornati alla base non bisogna attendere molto perché grotteschi ammassi di carne e zanne inizino a manifestarsi per i corridoi dei laboratori facendo mattanza di animali e spaventando gli scienziati; una “cosa” che era congelata nel ghiaccio è stata infatti risvegliata dai norvegesi e cerca ora di assorbire le sue vittime per rubare loro identità e sembianze, svelando le proprie fattezze esclusivamente nei casi disperati. Nessuno si fida più di nessuno, tutti potrebbero essere delle imitazioni aliene e una fortuita tempesta isola i ricercatori dal mondo esterno; si tratta di uno stallo alla messicana in cui i partecipanti sono malvolentieri obbligati a collaborare per arginare l’operato di un giocatore che non vuole rivelare le mosse, forzandoli in un contesto paranoico e soffocante che rischia di farli sprofondare nella pazzia nel giro di pochi giorni.
La diffidenza nei confronti del prossimo, vero fulcro della vicenda, risulta solida grazie a scelte direttive e stilistiche ben strutturate capaci di coinvolgere lo spettatore ingannandolo con domande che non ricevono mai risposta. La visione onnisciente garantita abitualmente al pubblico viene qui grandemente limitata, lasciando lancinanti ambiguità perché non sia palesata in alcun modo la presenza del nemico. Nell’occultare le scene limitandole a proiezioni di ombre, per esempio, il regista ha l’accortezza di fare recitare comparse generiche, in modo che le sagome intraviste non riconducano direttamente agli attori centrali. Queste equivocità accompagna l’intera pellicola, ma viene giostrata con tatto, alternando con regolarità situazioni in cui i protagonisti sembrano venire a capo della situazione e verosimili quanto frustranti complicazioni in grado di sottolineare la fragilità insita nel falso senso di controllo sviluppato dai sopravvissuti.
La “cosa”, inoltre, risulta essere dotata di grande intelletto, manipolando prove e indizi per enfatizzare la diffidenza e spaccare il gruppo; essa preferisce agire dietro le quinte, ricorrendo ad approcci fisici solo ed esclusivamente quando messa all’angolo, manifestando la sua natura in un modo grafico e grottesco, capace di scioccare gli umani circostanti abbastanza a lungo da guadagnarsi una fuga. L’altalenanza psicotica della trama risulta così convincente da destabilizzare e confondere lo spettatore, incidendo sulla sua psiche al punto da fargli dubitare della realtà stessa, per quanto esplicita, arrivando persino a fare in modo che molti distorcessero il cristallino finale caricandolo con ambiguità neppure prese in considerazione al momento delle riprese.
Oltre per la delicatezza e la sensibilità dimostrate nel ricreare dinamiche sociali degne di veri esseri senzienti, La Cosa è nota anche per aver fatto leva sulle dinamiche dei film d’azione anni ’80. Kurt Russell, già Iena/Snake Plissken nel carpentiano Fuga da New York, torna a rivestire i panni di virile protagonista idoneo a tenere testa al mondo intero, alle volte esagerando al punto di sfiorare la barriera della sospensione dell’incredulità. I patiti di esplosioni e frenesia possono dirsi appagati da un’ampia presenza di dinamite e lanciafiamme usati con ben poca parsimonia; in tal senso è noto come la star delle riprese abbia sofferto diverse ustioni a causa dei bengala segnaletici o di come una volta, sottovalutando la potenza degli esplosivi, sia stato quasi coinvolto dalla deflagrazione di una carica. A rinforzare l’esperienza sopra le righe della pellicola vi è un vasto uso di make-up ed effetti speciali adoperati nel ricreare le mostruosità grottesche e raccapriccianti che hanno grandemente indignato i critici dell’epoca. Sebbene sia innegabile che animatronics e protesi fossero stati modellati con cura maniacale, il largo uso di sangue e frattaglie ha portato molti giornalisti a minimizzare la portata dell’opera, finendo a concentrarsi sull’orrore al punto di smarrire del tutto il senso di suspense, minando incommensurabilmente la loro esperienza cinematografica.
Secondo film ispirato a La “cosa” da un altro mondo – il primo è La cosa da un altro mondo del 1951 – risulta sicuramente la trasposizione più fedele al testo originario, sfruttando il budget corposo e l’accessibilità tecnologica per ricrearne dignitosamente le atmosfere e separandosene solo rinunciando ai tratti più ottimistici e ingenui. Col passare degli anni il lavoro di Carpenter si è garantito un numero di estimatori significativamente fidelizzati, divenendo una proiezione obbligata – assieme a Shining – nelle fredde notti invernali delle stazioni di ricerca de polo sud. Il suo status di culto ha incentivato, nel 2002, la produzione dell’omonimo videogame, sequel canonicamente accettato dal regista, e del prequel La Cosa, uscito nei cinema nel 2011, narrante gli avvenimenti della base norvegese dalla scoperta dell’alieno all’inizio del lungometraggio dell’82. Quest’ultimo, nello specifico, dimostra l’amore genuino che i fan provano per questo caposaldo dell’horror fantascientifico, con un team che ha passato diversi mesi a studiare una ricostruzione minuziosa di ambienti e scenografie che si sposassero omogeneamente con l’illustre predecessore. Altrettanta attenzione non è stata purtroppo riposta nella sceneggiatura che, seguendo i dettami dei moderni prodotti hollywoodiani, sacrifica l’atmosfera per grandi effetti in computer grafica e azioni dinamicamente di intrattenimento; una certa affinità si nota, invece, nel ripercorrere scelte narrative già sperimentate e non sorprende scoprire che il progetto fosse nato inizialmente come l’ennesimo remake privo di anima generato dallo spasmodico rovistamento di vecchio materiale da riproporre alle nuove generazioni. Fortunatamente, i piani hanno intrapreso una piega alternativa quando lo staff coinvolto ha dovuto ammettere che rimaneggiare la fatica di Carpenter sarebbe stato come “dipingere dei baffi sulla Mona Lisa”, cosa che, come tutti sappiamo, sarebbe di un cattivo gusto tanto estremo da considerarsi arte.
-Walter Ferri-