Ci sono Giochi da Tavolo talmente vecchi che risulta quasi impossibile riuscire a trovare qualche informazione a riguardo, poiché i pochi coraggiosi sopravvissuti dell’epoca A.I. (ante internet) in grado di poterne divulgare la presenza con il resto del web si limitano a poche, criptiche frasi scollegate tra loro. A volte, però, a qualche fortunato è concessa la possibilità di rituffarsi nel passato e poter attingere a piene mani dalla fonte del boardgaming del tempo che fu: ciò può accadere in vari e mirabolanti modi, a seguito di avventure inimmaginabili o durante una piatta giornata di nullafacenza, dalla scatola semisepolta trovata nel negozio dell’usato sotto casa al cimelio scovato in un operazione di esplorazione/pulizia della mansarda della nonna.
Quando uno di questi cimeli del passato viene riportato alla luce è compito dell’eletto fornire al mondo della rete le notizie riguardanti questo Artefatto degli Antichi, narrando a quante più persone possibile riguardo la mirabolante scoperta.
È proprio per questo motivo che ho deciso di narrarvi dell’ultimo reperto di cui sono entrato in possesso: lo spauracchio dei commercianti in giochi da tavolo poiché maledetto (si dice sia rimasto su scaffali da tempi immemori), ovvero il misterioso oggetto chiamato dai comuni mortali “Il Tempio degli Uomini Bestia”, gioco un tempo edito in Italia dalla “Stratelibri”.
Superato facilmente l’orrore provocato dalla “copertina del gioco”, ho aperto la scatola per esplorarne il contenuto. La prima cosa in cui mi sono imbattuto sono stati due fogli di cartoncino rossi, divisi in plurime sezioni e tutti rappresentanti la stessa immagine: un quadrato nero su cui troneggia, in bianco, la scritta “Space 1889”; dopo qualche minuto di analisi minuziosa, senza riuscire a trarre alcuna conclusione riguardo il significato di tali scritte misteriose, mi sono deciso a girare i due fogli per scoprire, con mio grande stupore, che esse rappresentavano le carte del gioco, fuse assieme in un unico foglio! Chiedendomi perché gli Antichi dovessero complicarsi la vita in quel modo, ho quindi messo da parte i cartoncini ed ho continuato la mia esplorazione. Sono quindi entrato in contatto con altri fogli di cartone, questa volta più rigidi, molto simili alle fustelle moderne, pieni di segnalini e sezioni di mappa necessari al corretto funzionamento dell’Artefatto. Fu facile destreggiarsi con questa tecnologia che, seppur rudimentale, risultava essere molto simile a quella da noi impiegata.
Sul fondo della scatola, infine, oltre ad un Dado da 6, strumento molto utilizzato nei giochi delle ere passate, ho trovato anche due Tomi del Sapere: uno in grado di narrare la storia del gioco, e l’altro in grado di spiegare come utilizzare il gioco stesso; tra le pagine di uno dei tomi, inoltre, ho scovato due fogli di carta rappresentanti i precursori delle moderne Schede Personaggio.
Ho iniziato, dunque, a fare delle supposizioni riguardo al tipo di gioco di cui ero entrato in possesso: un Dungeon Crawl Game in cui i giocatori non collaborano, ma sono messi l’uno contro l’altro in una corsa all’accumulo del maggior numero di punti vittoria possibili, ottenibili perseguendo gli obiettivi propri di ogni personaggio o svolgendo determinate azioni, tra cui evitare che i propri avversari raggiungano il proprio scopo. In seguito mi sono immerso nella lettura di uno dei Tomi, da cui ho appreso come i “Mondi di Gioco” degli Antichi fossero notevolmente differenti rispetto a quelli da noi utilizzati, un misto tra fantasy e steampunk, ambientato nel passato: si narrava di come l’uomo fosse riuscito a colonizzare Marte nel lontano 1870 e di come fosse entrato in contatto con i marziani, dei selvaggi metà bestie metà umani. Tra tutti i marziani solo una specie, quella degli Altomarziani, brutale ad animalesca, si oppose pesantemente alla colonizzazione terrestre.
Ancora frastornato dalle differenze riscontrate rispetto al mondo moderno, ho aperto il secondo Tomo del Sapere: questa volta mi sono imbattuto in qualcosa di identico a quanto contengono i nostri giochi, ovvero un regolamento che, logicamente, risultava essere comprensivo di glossario delle carte, riassunto delle abilità e degli obiettivi di ogni personaggio. Terminata la traduzione del regolamento, e preparati tutti i pezzi del gioco, mi sono quindi permesso di avviare una partita di prova.
Il gioco sembrava scorrere velocemente, con poche semplici regole: i giocatori interpretavano alcuni avventurieri i quali, per vari motivi (ovvero gli Obiettivi di ogni personaggio) avevano deciso, assieme ad un piccolo gruppo di seguaci, ad esplorare un Kraal, ovvero una fortezza Altomarziana, composta da 5 piani (rappresentati nel gioco da 5 differenti quadrati composti da 9 tessere mappa, di cui l’unica scoperta è la tessera centrale, rappresentate il pozzo che collega i 5 piani della struttura.); partendo dal primo piano, essi potevano, a turno, svolgere alcune semplici azioni in sequenza, iniziando con il movimento tra le stanze od i piani del Kraag e passando per la pesca di carte a seguito dell’ingresso di una stanza (carte che svolgono la doppia funzione di eventi ed oggetti), fino a terminare con il combattimento contro gli Altomarziani presenti nella stanza del giocatore (azione completamente in balia del risultato del dado).
Il gioco sarebbe quindi continuato in questo modo fino a quando, pescata l’ultima carta dal mazzo, il giocatore con il maggior numero di punti vittoria sarebbe stato decretato vincitore.
L’effettiva fluidità del gioco risultava, però, frenata da un fattore che, probabilmente, gli Antichi reputavano secondario: per quanto facile e veloce, infatti, il gioco non riusciva minimamente a coinvolgermi, in quanto frenato dall’eccessivo uso dei dadi e a causa dell’assenza della possibilità di scelta, visto che tutte le azioni risultavano essere “forzate” e notevolmente influenzate dal fattore C, comunemente detto “fortuna nella pesca della carte”.
Dopo qualche turno di gioco, esasperato dall’orripilanza delle regole utilizzate dagli Antichi, decisi di abbandonare il gioco definitivamente e di conservarlo in un apposita teca, cosicché chiunque potesse osservarlo e, a sua volta, studiarlo.
Sconsiglio vivamente a chiunque, quindi, di avvicinarsi anche solo lontanamente a questo Artefatto: il rischio è quello di perdere il senno definitivamente, senza possibilità di recupero.
E voi, miei cari colleghi, avete riesumato almeno una volta nella vita un Artefatto degli Antichi?
Parliamo insieme delle vostre scoperte, confrontiamoci, aumentiamo il nostro sapere!