Dio non gioca a dadi, secondo molti, anche se sembra piuttosto inequivocabile dalla alcune immagini. Cosa si nasconde dietro tutte quelle colorate facce?
La storia ci insegna che, già nell’antichità, i cinesi ed altra gente del genere si facevano seppellire con i dadi. C’è chi pensa a questi ritrovamenti come qualcosa che ricollega tali oggettini spigolosi ma ruzzolanti alla tradizione orientale, essendo citati addirittura nella lista di giochi di Buddha, e c’è chi invece, come me, pensa solo che si tratti di mentecatti convinti di poterli usare oltre, e desiderosi di non rimanere senza dadi nel momento in cui potrebbe trovarsi ad affrontare Davy Jones in un’improbabile sfida a dadi su un veliero fantasma. Ma come tutti voi fan del fantasy sapete, nella vita (e nella non vita!) può succedere veramente di tutto.
Già gli antichi Greci, fra una bevuta, un omicidio e una lauta scopata, si facevano una partitella a dadi, tanto per stemperare la tensione sessuale accumulata. Gira voce che amassero giocare d’azzardo, scommettendo case, famiglie, bambini, rari perizomi in tela urticante e addirittura denaro. Lo sviluppo del dado è sicuramente collegato a quello degli astragali che, prima di diventare un gioco da bordello, era un gioco d’abilità molto gettonato fra donne, vecchi e bambini. Facendo un salto nel passato, come non citare le innumerevoli leggi che proibivano il gioco dei dadi d’azzardo nell’antica Roma, perché secondo Orazio i giovani romani avevano troppa passione per i dadi e poca per i cavalli, il che potrebbe essere più che fraintendibile, ma lui si riferiva alle corse. Anche se erano proibiti, i giocatori di dadi professionisti (e poi dicono che noi italiani ci inventiamo le professioni! n.d.r.) durante i giorni di Saturnalia (che erano gli unici giorni in cui era permesso giocare), disseminavano panico e seme all’interno delle case chiuse.
C’è anche una storia sui dadi truccati, che parla di angoli smussati, facciate non allineate perfettamente, pesi o addirittura un sistema di vasi comunicanti capillari in mercurio che permette di spostare il contenuto sulla faccia o sull’altra, oppure un dado con la sostanza semi-solida con il punto di fusione poco più basso della temperatura corporea umana, che permette al giocatore volpacchione di cambiare il peso dello stesso (e quindi, truccare il risultato) semplicemente respirandoci sopra o stringendolo nella mano, modificandone quindi la posizione del peso all’interno. Scommetto che almeno la metà di voi lettori si è sempre interrogata a riguardo, ma non ne è mai venuta a capo, né ha mosso le pacche per documentarsi. Eccovi serviti.
«Seduto a questa tavola ornata di belle pietre muoverai l’amabile gioco del lancio sonoro dei dadi. Ma se vincerai non ti fare superbo, oppure, se superato da altri non ti addolorare rimproverando il tuo lancio da pochi punti. Ché nelle piccole cose si fa manifesto il carattere dell’uomo e il dado annuncia quanto profondamente sia radicata la saggezza.»
(Agazia Scolastico, Epigrammi, 58)
Dopo queste belle parole rubate a Giolli Marano, celebre giocatore di dadi della bassa Renania, possiamo passare al medioevo, dove troviamo dame, cavalieri, goblin e quant’altro intenti a giocare a dadi, perché a quanto pare in quel periodo era un’attività piuttosto popolare, soprattutto alla fine del periodo feudale, quando bardi, bari, giocatori, ubriaconi molesti, frequentatori di taverna, ma più di ogni altra cosa quei simpaticoni dei lanzichenecchi, si trastullavano a giocare a dadi piuttosto che rischiare la vita come imbecilli nelle giostre varie, ad impalarsi con lance e roba del genere. Insomma, roba da mentecatti (vedi i cinesi ed affini di cui sopra).
Ora che di certo ne avrete le scatole piene di tutta questa storia, possiamo decisamente passare al resto, come il titolo recita, dai dadi da gioco al gioco da dadi.
Come molti di voi ben sapranno (e me lo auguro, altrimenti fate finta di saperlo), nel lontano 1974, Gary Gygax e Dave Arneson pubblicano un giochino di ruolo dal nome Dungeons & Dragons. E qui la rivoluzione. Cos’hanno fatto questi simpaticoni? Hanno praticamente introdotto (o per usare un termine più forte ma probabilmente più appropriato, inventato) l’utilizzo del d20 System con la terza edizione del gioco, perfezionandolo quindi e calibrandolo con il tempo e l’utilizzo per limarne la giocabilità. Il sistema di gioco, come si può intuire dalla denominazione, prevede l’utilizzo centrale del dado a 20 facce. Il Trademark sul d20 System ha quindi permesso una gestione migliore dei costi di produzione e del ricavo del manuale. Ma non staremo qui farci pippe mentali sulla questione economica o sull’enorme campagna pubblicitaria che ha lanciato il d20 System ed il Manuale della terza edizione di D&D, questa è un’altra storia. La popolarità che ha investito il gioco ha reso comune l’utilizzo di tipologie di dadi che prima venivano sostanzialmente schifate, perché antiestetici e scomodi da portarsi in tasca (per la serie “un dado da 4 nel culo fa più danni di un pugnale semplice!” N.d.r.). Il dado da venti, come dicevamo, è al centro della meccanica del gioco: si usa per determinare esiti di abilità, tiri su caratteristica, tiri per determinare esiti casuali, tiro per colpire e tante altre cose. Gli altri dadi vengono generalmente impiegati per determinare i danni delle diverse armi (ed ecco forse spiegato il perché del d4 per il pugnale e del d8 per una spada decente) o gli esiti degli incantesimi, mentre per determinare la percentuale bastano due dadi da dieci facce (il d100, questo sconosciuto, che solo a pronunciarlo ci si immagina un abominio grosso quanto un pugno, come minimo!), uno per le decine ed uno per le unità.
Ci sono altri giochi per coloro che non sono amanti delle statistiche e delle caratteristiche, e trovano nei dadi un modo per fare rumore e interrompere interminabili discussioni e soliloqui d’interpretazione che avrebbero fatto meglio ad iscriversi ad un corso di teatro amatoriale, ma che comunque, spesso, vanno per la maggiore. Prendiamo ad esempio un altro classico (sì, perché noi scomodiamo solo i pezzi grossi!) come Vampiri: la Masquerade, o in generale tutti i giochi della assorbita White Wolf che utilizzano un sistema di conteggio dei successi (come anche il sistema di Project H.O.P.E., recensito da noi dell’isola!): questo consiste nel lancio di più dadi dello stesso tipo (che possono essere d6 o d10 più comunemente) ed una soglia da superare. Più alto è il numero di lanci di dado che supera il punteggio soglia, più intenso è il livello di successo della prova da determinare.
Questi sono solo alcuni degli utilizzi nei giochi di dadi o nei giochi da dado, appunto. Quali sono le reali possibilità del sistema di dadi nel gioco di ruolo? Qual è il vero potenziale? Quanto è giusto affidare l’esito del gioco al caso piuttosto che alle caratteristiche o all’abilità del giocatore? È nato prima il dado o il baro? Sono tutte domande alle quali, ovviamente, quest’articolo non ha risposto, ma sono sicuro di aver stimolato la vostra curiosità nei confronti di questi oggetti abusati ma sempre troppo poco considerati!
– Antonio Sansone –