Salve gente, oggi voglio fare con voi una riflessione su ciò che ha costituito l’incipit, la prova generale (inconscia) del Gioco di Ruolo. Non tremate.
All’incirca un mese fa una nostra lettrice mi ha fatto riflettere sull’origine del mio hobby preferito, ossia il Gioco di Ruolo. In realtà, tutti abbiamo giocato da piccoli interpretando un ruolo, specie quando lo facevamo con altri amici: cowboy e indiani, guardie e ladri… un ruolo, appunto; allo stesso tempo, sovente ci servivamo di robot e pupazzi con cui simulare scontri epici, i primi veri cross-over della storia, come far lottare Optimus Prime/Commander contro Golion/Voltron, o uno dei Power Ranger contro uno dei Master, il Megazord contro un Mazinga, il tutto con correlati “bum”, “sbim” e “sbam” di accompagnamento.
Tuttavia, prima ancora di questo esempio, tradizionalmente, sono state le ragazze a gettare le basi per il gioco di ruolo moderno. Su, non fate quelle facce.
È questa la domanda che ha scosso le fondamenta del mio sapere: “Hai mai pensato che è la Barbie la prima forma di Gioco di Ruolo?”
Devo ammetterlo, lì per lì ho riso. Non volevo accettarlo, un po’ come se aveste provato nel medioevo a far credere che la Terra fosse rotonda.
Poi mi sono soffermato a riflettere sul fatto e, raggiunta l’epifania, ho pianto: perché mai avevo pensato ad una cosa simile, dato che persino i manuali di gdr, nelle solite, improbabili introduzioni per chi non ha mai giocato di ruolo (quanto spesso accade che qualcuno compri un manuale di gdr senza sapere cosa sia un gdr? Boh…, in cui si affannano in tentativi spesso sofferti per esplicare cosa sia un GDR, parlano di “guardie e ladri, cow-boy e indiani”.
Mai nessuno ha parlato della Barbie, di colei che l’eclettico blogger Dottor Manhattan riferisce essere la “vera Signora del Male”, personaggio autoreferenziale e quintessenza dell’egocentrismo al punto di averla fatta annusare per oltre QUARANT’ANNI al povero Ken, eterno fidanzato, senza mai peraltro cedere alle lusinghe ed ai tentativi di approccio di quell’esempio di “zerbino umano” che tutti conosciamo e compatiamo. Non è peraltro mia intenzione affrontare il tema in sé di Barbie, ma in questo primo appuntamento vorrei cogliere, sia pure sommariamente, le premesse di giocare con pupazzi, bambolotti, robot (“i mazinga”, diceva mia nonna, per riferirsi a tutti i robot giapponesi con cui da piccolo giocavo, e pazienza se tra essi c’erano anche i Cavalieri dello Zodiaco ed I Cinque Samurai) come protoforma di un gioco di ruolo, spesso da soli, o in compagnia di altri bambini e bambine.
Alzi la mano chi non ha mai visto bambine recitare matrimoni tra Barbie e Ken, simulati tradimenti e storie d’amore che sarebbero stati pane per i denti anche per la soap Beautiful, oppure finanche bambine che celebravano matrimoni TRA le Barbie, gettando le basi per le prime unioni omosessuali della storia, vissute con assoluta naturalezza e spontaneità… Questo, almeno, prima di superare la fase infantile del gioco e iniziare nell’adolescenza a torturare le proprie Barbie, decapitandole o mettendole nel forno perché venissero distrutte, nella miglior tradizione di “mi sto sciogliendo, mi sto sciogliendo! Che mondo crudele”, di rogerrabbittiana memoria.
Alzate anche la mano, se ne avete il coraggio, e ammettete che da piccoli, quando qualche volta i vostri genitori vi accompagnavano a casa di qualche bambina (in realtà, loro andavano a visitare i propri amici che avevano una bambina e vi scaricavano nella stanzetta di lei, certi che mai sarebbe accaduto qualcosa di scabroso perché troppo piccoli, lasciandovi con la frase “su, giocate un po’ assieme! Un po’ con i robot, un po’ con le bambole così siete entrambi contenti”), voi stessi avete maneggiato le Barbie senza capire perché il fatto di vederle vestite o meno facesse differenza, e voi stessi avete “creato una storia” con la bambina di turno giocando con le bambole. Ci potrebbero essere anche altre storie tristi, come l’usare il Dolce Forno, far finta di essere sposati alla bambina e giocare al vostro matrimonio avendo Ken come testimone mentre attraversate una fila di robot (da voi portati a casa dell’amichetta nella vana speranza di usarli per giocare) che vi guardano contriti e con sguardo di biasimo mentre vi avvicinate all’altare (un sordido tavolino usato per qualche “gioco del tè” ) dove verrà celebrata la funzione da un Orsetto del Cuore fidefaciente le funzioni di sacerdote, e così via, ma non è mia intenzione nuocervi con troppe storie dure.
La mia esigenza è più sottile: giocare con le bambole, con i robot, era davvero per voi liberatoria esperienza che in qualche maniera, seppur non vi ci siete mai soffermati a rifletterci, oggi vi ritrovate a vivere allorchè maneggiate una scheda, sognate quale personaggio interpretare, optate per creare con esso una storia che possa dirsi la realizzazione delle vostre speranze e sogni ? Qual’è il confine, sia pur labile, che vede giovani e meno giovani attorno ad un tavolo ad imprecare perché il DM temete stia falsando tutto dietro lo screen rispetto a quegli stessi individui che, da bambini, imprecavano perché c’era sempre il furbo che faceva finta di non venir mai colpito dalle pallottole dei cowboys avversari, o schivava miracolosamente le frecce degli indiani, o si inventava decine di poteri inesistenti che possedeva il proprio robot quando si doveva farli scontrare gli uni contro gli altri?
Oggigiorno assistiamo a scene differenti: i bambini moderni, i giovanetti nerd che sono cresciuti in un mondo più fantasyoso di quando io mi baloccavo con D&D Scatola Rossa (superando la curiosità, a tratti la perplessità e qualche volta la preoccupazione di chi ti chiedeva “Ma cosa fate attorno ad un tavolo? È un gioco da tavola?” ed altre domande scomode che al confronto quella su come nascano i bambini fatta da tuo figlio di quattro anni è una passeggiata), siano avvantaggiati: nessuno, salvo frange particolarmente estreme, ritiene ancora oggi i giocatori di ruolo dei satanisti, o persone che giocano nelle fogne, con pentacoli e candele sospette (“Ehi Marsha, vieni a vedere il satanista!” è la battuta prediletta di coloro che, seguendo Dork Tower del buon John “Mito” Kovalic, ne hanno colto la valenza antropologica e sociologica); parlare de Il Signore degli Anelli non fa più pensare a chi ascolta che si stia narrando di qualche gioielleria a buon mercato, di quelle che prendi uno, porti via venti (chi la vuol capire, la capisce); giocare di ruolo in maniera seria e responsabile non fa più parte solo delle terapie in uso dagli psicoterapeuti, che se ne servivano per curare i disturbi della personalità o altre forme di dissociazione; i film fantasy sono un prodotto non più di nicchia, ma rivolto al grande pubblico (e se qualcuno si azzarda a ricordarmi “Eragon” con l’insopportabile sconvolgimento di trama e la voce di una scelta “a casissimo” Ilaria d’Amico per il drago, mi turo le orecchie gridando “lalalalalalalalalanoncisentononmiparlate”) per quanto non tutti i prodotti siano di qualità e Willow resta una meravigliosa pietra miliare del genere.
Quindi, giocare con i pupazzetti è stato ciò che ha sviluppato il nostro lato nerd in un’epoca in cui non si sapeva cosa fosse essere nerd: è grazie a questo interesse, grazie alla nostra generazione di traviati da robot e dalle Barbie, che oggi i bambini possono gustarsi capolavori fantasy.
E noi essere dei padri e madri un po’ più moderni e all’avanguardia.
Sì, questo incipit non vuole essere particolarmente serio, eppure… siete certi di non aver rivisto un po’ di voi stessi in questo dipinto un po’ malinconico, un po’ sornione, un po’ scherzoso?
– Leo d’Amato –