All’inizio degli anni 2000 la New Line Cinema aveva deciso di finanziare il coraggioso progetto di trasportare in cellulosa la mastodontica presenza de Il Signore degli Anelli, opera magna del linguista britannico J. R. R. Tolkien, affidandola alle amorevoli mani del regista (allora) semi-sconosciuto noto con il nome di Peter Jackson. I film fantasy, così come quelli di pirati, sono notoriamente delle armi a doppio taglio agli occhi dei finanziatori, consapevoli di dover erogare molti fondi senza, tuttavia, avere la certezza di un ritorno effettivo; Peter si è trovato quindi a dover filmare un’intera trilogia in tempi ristrettissimi, concentrando le risorse sul primo capitolo della saga e preparandosi psicologicamente a dover rilasciare gli altri due direttamente sul mercato dell’home video.
Sorprendentemente, La compagnia dell’anello riuscì a scrollarsi di dosso il misero destino che era toccato a Dark Crystal e Legend (e che toccherà a Eragon e a La bussola d’oro), riuscendo a conciliare il materiale letterario con le richieste del mercato hollywoodiano. Forte di nuovi fondi e rinnovate energie, la produzione ha potuto riprendere in mano il progetto, filmando scene aggiuntive e dedicandosi a una post-produzione accurata e professionale che ha portato la trilogia a conquistare progressivamente sempre più premi fino a sbancare gli oscar con Il ritorno del re. Certo, volendo lagnarsi si potrebbe lamentare la mancanza di qualche Tom Bombadil o le diverse enfatizzazioni delle scene di combattimento, ma non si può negare che queste pellicole siano state in grado di attirare un nutrito gruppo di spettatori, garantendo uno standard qualitativo eccelso che fa perdonare le numerose scene puerili – che sono, ad onor del vero, quasi sempre peccaminosamente appaganti.
Passano gli anni e ora ci troviamo a vivere un’altra epopea ambientata nella Terra di Mezzo: lo Hobbit. Regista, produzione, cast e scenografie sono rimaste inalterate, riconfermando gli ingredienti che si erano meritati innumerevoli lodi da pubblico e critica; nonostante queste premesse, tuttavia, Un viaggio inaspettato e La desolazione di Smaug hanno lasciato perplessi gli spettatori, sono riusciti a contrariare grandemente i fan di lunga data e sono stati accolti tiepidamente dalle kermesse di tutto il mondo. Come è possibile, quindi, che un’alchimia collaudata e pluri-premiata abbia avuto un riscontro tanto divergente e pericolosamente vicino alla mediocrità?
Un primo, importante, punto da prendere in considerazione è il materiale da cui il film traggono ispirazione. Coloro avvezzi ai lavori tolkeniani lo sapranno certamente, ma Lo Hobbit è stato creato precedentemente a Il Signore degli Anelli e con intenti ben diversi; ancora lontano dal voler dare sfogo alle sue nozioni accademiche, Tolkien si era “accontentato” di scrivere un racconto per infanti che attingesse a piene mani dalle fiabe fantastiche di radice anglosassone. Le avventure di Bilbo Baggins sono semplici, colorate, vivaci e caratterizzate dalla prospettiva estremamente soggettiva della strana creatura che ne è protagonista, un contesto estremamente diverso dalle tinte apocalittiche e appassite che accompagnano la missione della compagnia dell’anello. Entrambi i testi hanno marcate peculiarità, risulta impossibile definire quale dei due sia il migliore poiché la loro godibilità è strettamente legata alla sensibilità del lettore stesso, ma la differenza nel registro linguistico, nelle esposizioni, nei ritmi sono oggettive e palpabili. Alla luce del successo ottenuto con i suoi precedenti lavori, Peter Jackson si è trovato nella scomoda posizione di dover integrare questo antefatto sforzandosi di garantire una continuità estetica e narrativa alla sua creazione, deformando di fatto trama e personaggi perché risultassero verosimili nel mondo di Arda.
Rimanendo sul tema della deformazione, non possiamo ignorare come i diktat dettati dalla produzione abbiano imposto di spezzare la trama in diversi lungometraggi (originalmente dovevano essere due, ma in seguito si è preferito puntare direttamente su una seconda trilogia). Chiunque abbia mai intercettato i due tomi non può che riconoscere una certa disparità tra Il Signore degli Anelli e Lo Hobbit – reciprocamente di circa 1400 pagine l’uno e 300 l’altro, l’idea di dedicare a entrambi le medesime energie fa sicuramente storcere il naso, soprattutto alla luce della deludente realizzazione. Quella che dovrebbe essere una vicenda lineare, sintetica e notevolmente legata all’hobbit menzionato nel titolo finisce con il divagare sondando terreni creati per l’occasione, sia introducendo personaggi inediti atti a sviluppare sottotrame, sia ampliando situazioni esistenti con spassionati riferimenti o vuote scene d’azione. Quest’ultima peculiarità, soprattutto, mal si sposa con la passione crescente del regista per gli imponenti combattimenti che, man mano, hanno occupato lo spazio che sarebbe stato bene dedicare all’intreccio, demoralizzando gli attori protagonisti e facendo loro perdere fiducia nell’impresa.
In ultimo, ma decisamente importante, ricordiamo che il progetto era stato assegnato a Guillermo del Toro, noto per odiare il lavoro di Tolkien, ma che questi si sia tirato indietro dopo che i finanziatori lo avevano obbligato a posticipare numerose volte gli inizi delle riprese. Peter Jackson, che aveva ammesso di non volersi fare coinvolgere direttamente anche a causa di dispute legali, fu convocato repentinamente per evitare che il progetto collassasse ancora prima della sua genesi ufficiale. Nonostante il regista sia stato persuaso – lasciamo a voi il fantasticare sul come – a dirigere la serie cinematografica, il suo entusiasmo ne ha risentito notevolmente, come si può notare anche dal discorso motivazionale che ha tenuto al cast:
“Sapete, per un lungo periodo ho pensato che ritornare alla magnifica esperienza de Il Signore degli Anelli non sarebbe stata una… uhm… una buona idea. […] Se qualcuno venisse da me oggi e mi dicesse che possiamo portare avanti la pre-produzione per altre sei settimane, gli direi ‘No, no. Assolutamente no, iniziamo semplicemente le riprese.'”
Jackson non è mai stato particolarmente brillante con la tecnica green-screen utilizzata per sovrapporre attori a immagini digitali, ma dopo la sua prima esperienza con la Terra di Mezzo ha dedicato sempre minor tempo alle fasi di pre/post-produzione, esacerbando la cosa fino a raggiungere esempi tristemente noti per i loro difetti quali i dinosauri del suo King Kong. Fiaccato da stanchezza e frustrazioni di natura burocratica, il regista si è disinteressato dello studio dei dettagli che aveva usato in precedenza e ha preferito affidarsi a un abuso di computer grafica goffa e cartoonesca. Adoperando videocamere 3D, inoltre, non è stato possibile sfruttare i giochi di prospettive che consentono personaggi di stature diverse di interagire sullo stesso set, creando una situazione in cui l’interazione umana è così sterile da aver causato una crisi a Sir Ian McKellen tanto grave da fargli riconsiderare la sua carriera d’attore.
Un regista poco legato al suo lavoro, la produzione affamata di denaro, un cast sempre più frustrato e effetti speciali tecnicamente discutibili sono incapaci di farci riscoprire quel mondo che avevamo imparato ad amare una dozzina di anni fa, limitandosi a esserne sbiadita imitazione il cui unico intento è ricordare i bei tempi andati con continui rimandi. La trilogia de Lo Hobbit non è riuscita, per ora, a elevarsi dalla dozzinalità tipica dei blockbuster ignoranti, orbitando in quella massa di pellicole a tratti godibili che non riescono tuttavia a salvarsi dalla vacuità. L’ultimo film, La battaglia delle cinque armate, uscirà a breve nelle sale cinematografiche (il 17 dicembre, per essere precisi) e speriamo possa stupirci positivamente recuperando in extremis una dignità che pare ormai essere evaporata nel nulla; incrociamo le dita e preghiamo il valar Ulmo, ma affidandoci all’esperienza maturata sul campo non confidiamo troppo in questa remota possibilità, soprattutto considerando che potrebbe trattarsi di un’unica immensa battaglia combattuta senza sosta per tutte le tre ore di girato, magari con coreografie che sembrerebbero estrapolate da passate animazioni videoludiche.
-Walter Ferri-